Sud Sudan. Laboratorio della politica estera cinese

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Frammenti Africani è un resoconto giornalistico di tematiche complesse del Continente Africano, futuro epicentro economico mondiale, dove coesistono potenze economiche e militari, crescita economica a due cifre, guerre, colpi di stato, masse di giovani disoccupati e una borghesia in piena crescita.
Un mosaico di situazioni contraddittorie documentate da testimonianze di prima mano e accuratamente analizzate per offrire un'informazione approfondita sulla politica, economia e scoperte scientifiche di un mondo in evoluzione pieno di paradossi.

Fulvio Beltrami

Fulvio Beltrami
Originario del Nord Italia, sposato con un'africana, da dieci anni vivo in Africa, prima a Nairobi ora a Kampala. Ho lavorato nell’ambito degli aiuti umanitari in vari paesi dell'Africa e dell'Asia.
Da qualche anno ho deciso di condividere la mia conoscenza della Regione dei Grandi Laghi (Uganda, Rwanda, Kenya, Tanzania, Burundi, ed Est del Congo RDC) scrivendo articoli sulla regione pubblicati in vari siti web di informazione, come Dillinger, FaiNotizia, African Voices. Dal 2007 ho iniziato la mia carriera professionale come reporter per l’Africa Orientale e Occidentale per L’Indro.
Le fonti delle notizie sono accuratamente scelte tra i mass media regionali, fonti dirette e testimonianze. Un'accurata ricerca dei contesti storici, culturali, sociali e politici è alla base di ogni articolo.

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Mag 20

Sud Sudan. Laboratorio della politica estera cinese

La crisi del Sud Sudan, sta rappresentando una delle maggior sfide per l’imperialismo economico di Pechino costringendo il gigante asiatico a rivedere la sua politica di non interferenza. Il Sud Sudan rappresenta il laboratorio di un radicale cambiamento della politica estera cinese

di Fulvio Beltrami

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La Cina è direttamente colpita dalla prolungata crisi sud sudanese, iniziata il 15 dicembre 2013. Pechino assicura al Governo di Juba il 80% delle esportazioni di greggio, quantità considerata vitale per lo sviluppo industriale ed economico della Cina e per il sostegno finanziario del governo africano. Le esportazioni di petrolio rappresentano il 97% delle entrate sud sudanesi. Nel 2010 quotidianamente venivano esportati in Cina 384.000 barili, il 5% del totale delle importazioni di greggio del gigante asiatico.

Il drammatico calo di produzione registrato dall’inizio della guerra civile sta mettendo in serie difficoltà entrambi i partner. Dalla produzione giornaliera di 480.000 barili registrata nel 2010 si passa all’attuale produzione di 160.000 barili corrispondente ad un calo produttivo del 67%, destinato ad aumentare.

La diminuzione produttiva era già cominciata nel 2011 a causa delle dispute tra Juba e Khartoum sullo Stato di Abey e altre regioni frontaliere che ha portato al rischio della ripresa del conflitto tra i due paesi gemelli. Rischio evitato grazie alla paziente opera diplomatica di Pechino. La guerra civile ha impedito la ripresa produttiva su cui le multinazionali cinesi contavano.

Questa drammatica situazione ha costretto la Cina a rivedere la sua dottrina di non interferenza che fino ad ora si è dimostrata una efficace arma per penetrare i mercati africani ai danni dell’Occidente. Una dottrina considerata dal Partito Comunista Cinese come inviolabile.

L’inviato degli Affari Africani del governo cinese Zhong Jianhua nei recenti mesi ha compiuto varie missioni ufficiali in Sud Sudan e in altri paesi della regione nel tentativo di risolvere la crisi in atto.

Lo scorso febbraio Zhong ha dichiarato alla Reuters che l’approccio cinese alla crisi del Sud Sudan rappresenta un nuovo capitolo per la politica estera di Pechino. Zhong ha tentato di offrirsi come principale mediatore tra le due fazioni impegnate nel conflitto. “La Cina è costretta ad assumere un ruolo più attivo negli affari africani. Il Sud Sudan rappresenta un test per Pechino che potrebbe obbligare il governo ad assumere un ruolo di negoziatore maggiormente aggressivo, aumentare la sua presenza nelle missioni di pace ONU per salvaguardare i propri interessi nel Continente Africano e il ruolo di potenza planetaria”, afferma Deborah Brautigam esperta di tematiche africane presso la Johns Hopkins School of Advanced International Studies.

All'inizio della crisi le intenzioni di Pechino erano quelle di ripetere il gioco di mediatore svolto durante la crisi Juba Khartoum (2011 – 2012) che evitò un’escalation militare che rischiava la ripresa su vasta scala dello storico conflitto tra i due Sudan. Con l’evolversi della guerra civile la ribellione guidata dal ex Vice Ministro Riek Machar è progressivamente divenuta una minaccia mortale per gli interessi petroliferi della Cina nel paese. La strategia di Riek Machar è quella di impedire la produzione di greggio per togliere la principale fonte di finanziamento della guerra a disposizione del governo di Juba.

Questa strategia è stata associata a promesse fatte dal leader della ribellione a multinazionali occidentali di disdire gli accordi commerciali con le multinazionali cinesi per permettere a quelle occidentali di prendere il controllo della produzione petrolifera nel Sud Sudan. Machar ha anche promesso al Sudan di continuare la collaborazione economica assicurata dal transito del greggio sud sudanese nel territorio del Sudan, scartando la possibilità di un oleodotto alternativo per portare il greggio al porto di Lamu, in Kenya. Promesse obbligatorie che hanno permesso a Machar di ottenere l’appoggio militare e finanziario di Stati Uniti e Sudan. Questi due storici nemici hanno creato una inaspettata coalizione di interessi che ha coinvolto anche l’Etiopia, offrendo a Riek Machar la possibilità di continuare il conflitto.

Il network internazionale di alleanze creatosi ha spinto Machar ad attaccare direttamente le multinazionali cinesi chiedendo loro di lasciare il paese ed iniziando a rapire i tecnici cinesi presenti sui pozzi petroliferi che sono concentrati nelle regioni di Unity State, Upper Nile e in misura minore nel Jonglei State.

La ribellione è formata per la maggioranza da soldati di etnia Nuer che hanno disertato dal esercito regolare, il Sudan People’s Liberation Army (SPLA). I Nuer prima del conflitto rappresentavano il 60% delle forze a disposizione del SPLA. A questi si devono affiancare circa 30.000 uomini appartenenti alla milizia White Army (Armata Bianca) composta prevalentemente da giovani Nuer e responsabile dei peggiori crimini di guerra commessi dalla ribellione in questi mesi.

La forza a disposizione di Riek Machar sarebbe risultata vittoriosa in meno di due settimane dall'inizio della guerra civile. Agli inizi del gennaio 2014 il governo di Salva Kiir poteva essere un lontano ricordo per la travagliata storia della più giovane nazione del Continente. Il prolungamento della guerra, che da civile si è trasformata in etnica sfiorando il genocidio, è stato causato dall’intervento militare dell’esercito ugandese (UPDF) in sostegno del governo di Juba e del SPLA. 

L’Uganda, inizialmente a favore della ribellione, ha rapidamente deciso di voltare le spalle a Machar per proteggere il presidente Salva Kiir a causa di errori tattici commessi da Riek Machar, che fin dai primi giorni della crisi avrebbe dimostrato una ostilità nei confronti dell’Uganda. L’intervento del UPDF, che ha impedito una facile e scontata vittoria della ribellione, è motivato dalle mire imperialistiche del presidente Yoweri Museveni sul greggio sud sudanese. L’obiettivo è quello di incanalare parte della produzione petrolifera del vicino paese verso la raffineria di Hoima, nord Uganda, per aumentare la produzione di carburanti e derivati destinata al mercato regionale. Avendo già il controllo del greggio congolese presente sul Lago Alberto, Museveni intende utilizzare quello sud sudanese per porre l’Uganda come principale produttore di prodotti finiti petroliferi nella Regione dei Grandi Laghi.

Nel disperato tentativo di salvarsi, il presidente Kiir avrebbe accettato di consegnare almeno il 40% del greggio nelle mani ugandesi. L’intervento ugandese è la prima causa del prolungamento del conflitto, del verificarsi di pulizie etniche tendenti al genocidio, del prosciugamento delle ultime riserve di valuta estera della Banca Centrale di Juba utilizzate per pagare il sostegno militare offerto al UPDF. Ora l’Uganda, oltre a sostenere la drastica diminuzione delle esportazioni in Sud Sudan che stanno rallentato la crescita economica di 1,5 punti di percentuale, si trova costretta a finanziare i costi della guerra: 7,5 milioni di dollari spesi fino ad ora, nella speranza di poter recuperare questa emorragia finanziaria tramite le forniture di greggio gratuite a titolo di rimborso dello sforzo di guerra a crisi terminata. Per recuperare i soldi spesi e incanalare il greggio sud sudanese nell’economia nazionale, l’Uganda deve a tutti costi impedire una vittoria di Riek Machar o la creazione di una forza di pace africana avversa ai suoi interessi geo-strategici.

Le mire di Museveni su parte del petrolio sud sudanese non interferiscono con la Cina, al contrario si integrano nei piani commerciali di Pechino che ricopre un ruolo importante nella futura produzione petrolifera ugandese attraverso la sua multinazionale SINOPEC L’inizio della produzione in Uganda è prevista per il 2016 e il completamento della raffineria di Hoima tra il 2017 e il 2018.

Gli sforzi attuati da Pechino per assumere il ruolo di mediatore tra le parti in conflitto sono stati sistematicamente neutralizzati dalla diplomazia occidentale in primis quella americana con il chiaro intento di spazzar via la Cina da questo importante paese produttore di petrolio. Pechino all’epoca pensava di replicare i successi ottenuti grazie alla mediazione svolta nel 2012 tra Sudan e Sud Sudan che aveva riappacificato i due paesi ed evitato l’ennesimo conflitto.

Il boicottaggio agli sforzi diplomatici e l’emergere di un asse avverso, quello di Khartoum-Washington-Addis Abeba, ha spinto il Partito Comunista Cinese ad entrare attivamente nel conflitto, alleandosi con l’Uganda e sostenendo parte del esoso sforzo bellico in atto per salvaguardare il governo Kiir.

Questa alleanza ha costretto Pechino a rivedere i suoi storici rapporti con il Sudan, attualmente posizionatosi contro gli interessi cinesi nella regione. Il calcolo fatto da Partito Comunista e multinazionali cinesi è semplice: la maggioranza dei giacimenti petroliferi si trova nel Sud Sudan. Per salvaguardare gli interessi nazionali occorre salvare gli accordi commerciali stipulati con l’attuale governo ancora in carica anche a detrimento delle relazioni con il suo alleato storico nella regione: il Sudan.

Il greggio sud sudanese posizione il paese africano a divenire un punto strategico per la sicurezza economica interna della Cina assumendo la stessa importanza che il Kuwait e Iraq rappresentano per gli Stati Uniti.

I tentativi di assumere il ruolo di mediatore della crisi avevano portato Pechino a non attuare chiare prese di posizione nei conflitti in Siria e Ucraina, nella speranza che Stati Uniti e Unione Europea accettassero la spartizione delle aree di influenza mai ufficialmente proposta in quanto considerata sottintesa. Dinnanzi a boicottaggio occidentale che sta costringendo la Cina a divenire uno degli attori diretti del conflitto sud sudanese, probabile si potrebbe assistere ad un irrigidimento della politica estera cinese nelle altre due crisi a favore del governo siriano e della Russia, aumentando le già evidenti tensioni tra le storiche potenze mondiali e quelle emergenti.

“Indipendentemente dagli esiti che scaturiranno, il Sud Sudan rappresenta per la Cina un esperimento che influenzerà le future decisioni di Pechino in politica estera. Si intravvede la volontà della Cina di diventare una potenza militare capace di influenzare le vicende mondiali e di acquisire nuove sfere di influenza non solo unicamente contando sulla sua forza di penetrazione economica. Se i piani destinati al Sud Sudan non si realizzeranno Pechino potrà imparare dalle difficoltà ed errori commessi in questa crisi per essere maggiormente preparata alle future crisi in Africa”, afferma Deborah Brautigam.

Il nuovo corso della Cina passa anche attraverso ad un maggior impegno presso i corpi di pace ONU che tende ad assicurare a Pechino l’egemonia politica sulle missioni delle Nazioni Unite, riuscendo così ad orientare le scelte politiche e metodologie di intervento decise al palazzo di vetro a New York. La Cina è già il principale finanziatore dei caschi blu. Nel 2013 la dirigenza del partito comunista ha approvato l’invio di truppe combattenti in Mali con il chiaro tentativo di frenare la riconquista della ex colonia africana tentato dalla Francia.

La nuova strategia nei confronti delle Nazioni Unite è tesa a togliere il monopolio detenuto dagli Stati Uniti ed Europa. L’obiettivo potrà essere raggiunto solo attraverso il nascere di profonde spaccature all’interno del ONU che aumenteranno esponenzialmente l’efficacia dei caschi blu evidenziando l’attuale ruolo di totale mancanza di imparzialità delle missioni di pace.

In Sud Sudan consistenti prove indicano il supporto militare offerto dalla missione di pace UNMISS alla ribellione di Riek Machar, consegne di armi e munizioni comprese dettato ed incoraggiato dagli Stati Uniti. L’ultima consegna ONU di armi ai ribelli è stata intercettata dal SPLA e UPDF venerdì 07 marzo 2014. Le armi erano nascoste in un convoglio di 13 camion della UNMISS diretto verso la città di Bentiu nel Unity State passando per la città di Rumbek. Fin dall'inizio della guerra civile Bentiu è uno dei principali teatri del conflitto sud sudanese. La città è stata a più riprese conquistata dalla rivali fazioni che hanno commesso inaudite violenze etniche contro i civili.

Le recenti condanne del Segretario Generale Ban Ki-Moon sui crimini di guerra e le minacce di sanzioni rivolte ad entrambi i contendenti non devono trarre in inganno. La missione di pace delle Nazioni Unite in Sud Sudan è inequivocabilmente schierata a favore della ribellione a cominciare dai primi giorni della crisi, quando il 15 dicembre 2013 il Dottor Riek Machar riuscì a evitare l’arresto e a fuggire da Juba grazie alla complicità dei Caschi Blu.

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