Frammenti Africani è un resoconto giornalistico di tematiche complesse del Continente Africano, futuro epicentro economico mondiale, dove coesistono potenze economiche e militari, crescita economica a due cifre, guerre, colpi di stato, masse di giovani disoccupati e una borghesia in piena crescita.
Un mosaico di situazioni contraddittorie documentate da testimonianze di prima mano e accuratamente analizzate per offrire un'informazione approfondita sulla politica, economia e scoperte scientifiche di un mondo in evoluzione pieno di paradossi.
Fulvio Beltrami
Originario del Nord Italia, sposato con un'africana, da dieci anni vivo in Africa, prima a Nairobi ora a Kampala. Ho lavorato nell’ambito degli aiuti umanitari in vari paesi dell'Africa e dell'Asia.
Da qualche anno ho deciso di condividere la mia conoscenza della Regione dei Grandi Laghi (Uganda, Rwanda, Kenya, Tanzania, Burundi, ed Est del Congo RDC) scrivendo articoli sulla regione pubblicati in vari siti web di informazione, come Dillinger, FaiNotizia, African Voices. Dal 2007 ho iniziato la mia carriera professionale come reporter per l’Africa Orientale e Occidentale per L’Indro.
Le fonti delle notizie sono accuratamente scelte tra i mass media regionali, fonti dirette e testimonianze. Un'accurata ricerca dei contesti storici, culturali, sociali e politici è alla base di ogni articolo.
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Mag 18
di Fulvio Beltrami
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Dal febbraio 2016 il Malawi sta affrontando una difficile situazione di insicurezza alimentare. Le inondazioni registratesi nell’ultimo semestre 2015 hanno creato un calo di produttività del mais pari al 32% e il conseguente aumento dei prezzi sul mercato della farina. Tenendo presente che il mais è l’alimento base nella dieta delle popolazioni dell’Africa Orientale e Africa del Sud, la carenza sul mercato nel Malawi ha messo a serio rischio di insicurezza alimentare 6,7 milioni di cittadini che equivale al 38,20% della popolazione che conta 17 milioni di persone. La drammatica situazione ha costretto il Programma Alimentare Mondiale e le ONG internazionali a cercare fondi supplementari per far fronte a questa estesa insufficienza alimentare che colpisce maggiormente donne e bambini.
Nella cultura regionale in caso di carenza di cibo, la maggioranza di quel poco che è disponibile nelle dispense della famiglia è destinata a garantire il fabbisogno minimo giornaliero di calorie al padre di famiglia e ai figli maschi adulti per permettere loro di avere le energie necessarie per continuare a lavorare e portare soldi alla famiglia. Donne e bambini ricevono di conseguenze razioni inferiori.
I fondi necessari per garantire il fabbisogno alimentare hanno subito difficoltà a raggiungere gli obiettivi prefissati costringendo il PAM e le agenzie umanitarie a rivedere al ribasso il loro intervento. I principali fattori del mancato raggiungimento dei finanziamenti sono state le contemporanee crisi alimentari in Kenya, Congo e Sud Sudan.
Le inondazioni che hanno distrutto i raccolti non solo l’unica causa della insicurezza alimentare nel Paese. Dopo opportune indagini il governo ha scoperto che la prima causa della insicurezza alimentare che ha colpito 6,7 milioni di cittadini risiede nelle attività speculative dei commercianti che esportano il mais prodotto invece di immetterlo nel mercato nazionale. I commercianti esportano grandi quantità di mais in Tanzania, Zambia e Congo dove il prezzo di vendita all’ingrosso è superiore di 4 volte rispetto al prezzo di vendita sui mercati malawiani. In situazioni normali attività di esportazione delle derrate alimentari non è da considerarsi reato sopratutto nel regime di libero mercato che la maggioranza dei Paesi africani ha adottato dalla fine degli anni Novanta. Lo diventa nel caso di carestia nazionale.
Per evitare una pericolosa “rivolta del pane” le autorità governative hanno imposto una sensibile riduzione sulle quote di mais destinate all’esportazione. Una misura adottata lo scorso marzo che non ha dato i risultati sperati. A seguito delle indagini svolte per capire le ragioni che hanno reso inefficace questo provvedimento, si è scoperto che i commercianti malawiani hanno ignorato le direttive governative e continuando illegalmente ad esportare mais. Questo constato ha costretto il governo a dichiarare le esportazioni che non rispettano le quote stabilite come attività illegali. Le forze dell’ordine sono state immediatamente attivate per bloccare ogni traffico. Indagini interne sono state aperte per verificare eventuali connivenze con gli ufficiali di dogana.
Nelle ultime tre settimane la polizia ha requisito 43 camion di mais presso la dogana di Chitipa che si stavano dirigendo in Tanzania e Zambia. Chitipa è la principale dogana terrestre del Paese per i flusso import export. Queste requisizioni evidenziano una intensa ed estesa attività di speculazione commerciale attuata ai danni della popolazione malawiana e della pace sociale nel Paese. Il sospetto di connivenza di funzionari di dogana è stato sottoposto alle competenti autorità da ONG locali e da associazioni in difesa dei diritti umani tra le quali Centre for Human Rights and Rehabilitation - CHRR. “Le esportazioni illegali di mais avvengono grazie alla complicità di agenti di dogana” denuncia Grecian Karonga, direttore CHRR per i distretti di Chitipa e Karonga.
I risultati di indagini svolte dalla ONG locali sono stati condivisi con la polizia al fine di facilitare le indagini. Il governo ha promesso la rimozione e la punizione di tutti gli ufficiali coinvolti. Ha inoltre rafforzato la legge sulle esportazioni di derrate alimentari strategiche, il Special Crops Act imponendo ai commercianti di vendere i prodotti acquistati dai coltivatori principalmente sul mercato nazionale e alla National Food Reserve Agency un’agenzia statale con il compito di immagazzinare mais e altri cereali per far fronte ad emergenze alimentari. A causa delle esportazioni illegali questa agenzia si trova al momento con scarse riserve di cereali in quanto i commercianti preferiscono vendere il mais in Paesi stranieri attirati dalle ottime possibilità di guadagno.
Le speculazioni commerciali sui prodotti agricoli e in special modo il mais non sono una esclusiva del Malawi. Nonostante gli evidenti danni alla popolazione e al Paese queste speculazioni sono presenti anche in Kenya, Etiopia e Uganda. Il caso ugandese è emblematico. I commercianti da sei mesi si stanno concentrando sulle esportazioni di mais nei vicini Kenya e Sud Sudan dove i profitti sono 3 volte maggiori di quelli ottenibili sul mercato interno. Nel solo febbraio 2017 sono state esportate 28.000 tonnellate di mais generando un giro d’affari di 14 milioni di dollari. Mentre i commercianti (a maggioranza di origine indiana) diventano ricchi il prezzo al dettaglio del mais è drasticamente aumentato da 600 UGX al Kg agli attuali 1.600 con prospettive che il prezzo aumenti fino ai 2000 UGX (circa 52 centesimi di Euro).
Le speculazioni commerciali dei commercianti ugandesi hanno creato serie difficoltà per gli allevatori di polli una delle principali fonti economiche del settore allevamento. Gli ugandesi sono grandi consumatori di polli e uova. La produzione è talmente forte da rendere il Paese il principale esportatore di polli nella regione. L’aumento del prezzo del mais creato dalle esportazioni ha già creato il fallimento del 12% della aziende agricole impostate sull’allevamento dei polli. A questa situazione si aggiunge l’attacco di un verme particolarmente resistente ai pesticidi normalmente utilizzati che ha distrutto varie piantagioni di mais creando un danno di 4,5 miliardi di UGX (1,18 milioni di euro).
Al momento in Uganda non si registrano gravi rischi sulla sicurezza alimentare ma l’aumento al dettaglio del mais contribuisce alla compressione dei bilanci familiari intaccando settori vitali quali educazione e sanità. Le famiglie si vedono costrette a diminuire il loro budget mensile destinato all’educazione dei loro figlie e alle cure mediche, sopratutto quelle preventive. A differenza del Malawi (dove il governo è stato costretto ad intervenire per evitare rivolte) le autorità ugandesi preferiscono non interferire nelle attività speculative degli indiani per non interferire nel libero mercato.
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