Israele. La rivolta degli Africani

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Frammenti Africani è un resoconto giornalistico di tematiche complesse del Continente Africano, futuro epicentro economico mondiale, dove coesistono potenze economiche e militari, crescita economica a due cifre, guerre, colpi di stato, masse di giovani disoccupati e una borghesia in piena crescita.
Un mosaico di situazioni contraddittorie documentate da testimonianze di prima mano e accuratamente analizzate per offrire un'informazione approfondita sulla politica, economia e scoperte scientifiche di un mondo in evoluzione pieno di paradossi.

Fulvio Beltrami

Fulvio Beltrami
Originario del Nord Italia, sposato con un'africana, da dieci anni vivo in Africa, prima a Nairobi ora a Kampala. Ho lavorato nell’ambito degli aiuti umanitari in vari paesi dell'Africa e dell'Asia.
Da qualche anno ho deciso di condividere la mia conoscenza della Regione dei Grandi Laghi (Uganda, Rwanda, Kenya, Tanzania, Burundi, ed Est del Congo RDC) scrivendo articoli sulla regione pubblicati in vari siti web di informazione, come Dillinger, FaiNotizia, African Voices. Dal 2007 ho iniziato la mia carriera professionale come reporter per l’Africa Orientale e Occidentale per L’Indro.
Le fonti delle notizie sono accuratamente scelte tra i mass media regionali, fonti dirette e testimonianze. Un'accurata ricerca dei contesti storici, culturali, sociali e politici è alla base di ogni articolo.

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Israele. La rivolta degli Africani

Tel-Aviv, domenica 5 gennaio. Gli immigrati africani hanno proclamando uno sciopero di tre giorni per protestare contro le condizioni disumane in cui vivono, le reclusioni senza processo e i tentativi di espulsione. Un'accurata inchiesta sulle politiche immigratorie del governo israeliano e le origini della protesta

di Fulvio Beltrami

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Trentamila sui cinquantacinquemila immigrati africani presenti nel paese hanno protestato organizzando una manifestazione nella capitale israeliana. La maggioranza di essi proviene dall’Eritrea e dal Sudan, due paesi governati da regimi tra i più dittatoriali e brutali dell’Africa. Molti di essi vivono e lavorano in Israele da anni ma la loro posizione non è mai stata regolarizzata dalle autorità. Una manifestazione di minore entità si è svolta anche presso la città di Eilat dove gli immigrati si sono radunati all’esterno del ministero degli Interni.

La manifestazione è iniziata nel Parco Levinsky e terminata nel cuore della capitale: Rabin Square. Cantando gli slogan “Libertà non prigione”, “Niente più prigione né deportazioni. Siamo rifugiati in cerca di asilo”, gli immigrati chiedono la fine degli arresti di massa e il riconoscimento delle loro richieste di asilo politico, iniziando una lotta per il rispetto dei diritti umani che ha attirato l'attenzione dell’opinione pubblica mondiale contro le politiche di immigrazione del governo israeliano basate sul principio di preservare l'identità razziale e culturale del paese. Ideologia promossa dall’estrema destra e dagli ambienti più conservatori del clero che, paradossalmente, sta prendendo connotati simili all’ideologia della razza pura ariana.

Questo movimento xenofobo, originato dalla crisi economica e dal senso di assedio e di costante minaccia di annientamento che la popolazione vive fin dalla guerra dei sei giorni del 1967, ha spinto il governo ad adottare durissime misure razziali di cui effetti sono meno cruenti ma la metodologia di applicazione ricorda le leggi razziali dell’Italia e della Germania degli anni Trenta. Il Parlamento israeliano nel 2012 ha pubblicamente dichiarato che gli immigrati africani rappresentano un rischio mortale per l'identità dello Stato Giudaico.

Per bloccare la principale porta d’ingresso al paese, il governo ha costruito un muro lungo tutta la frontiera con l’Egitto, sorvegliato dall’esercito. Ora il problema è come espellere gli immigrati illegali ancora presenti in Israele denominati “Infiltrati”. Il 10 dicembre 2013 il Knesset (Parlamento israeliano) ha approvato un amendamento alla legge Anti-Infiltrazioni che autorizza la detenzione per un anno senza processo dei 55.000 immigrati africani presenti nel paese.

La decisione del Knesset era stata considerata da alcune organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani un passo in avanti poiché abrogava le disposizioni attuate nel gennaio 2012 che autorizzavano tre anni di reclusione senza processo. Nel settembre 2013 la Corte Suprema aveva dichiarato che le pene di reclusione violavano le basi della Costituzione israeliana.

Purtroppo l'ammendamento “migliorativo” della legge è stato il preludio per un'operazione “legale” di pulizia etnica. Il 12 dicembre le forze dell’ordine hanno iniziato ad effettuare arresti di massa deportando gli africani nel centro di raccolta di Holot, in realtà un lager situato nel centro del deserto del Negev, recentemente aperto dopo che la prigione Saharonim è stata considerata disumana dalla Corte Suprema, grazie ad un rapporto-denuncia della Ong americana Human Watch Rights pubblicato nel marzo 2013.

Durante le ultime due settimane di dicembre sono stati deportati nel centro di raccolta di Holot i mille prigionieri reclusi a Sahoronim e duemila immigrati arrestati a Tel-Aviv.

Il 15 dicembre 2013 si è verificata una fuga di massa dal centro di raccolta di Holot. Duecento immigrati africani fuggiti si sono riversati a Tel-Aviv, organizzando un sit-in e denunciando che Holot è in realtà un terribile lager. Gli evasi hanno domandato il rispetto dei diritti dei rifugiati e sono stati raggiunti da migliaia di immigrati africani mentre i prigionieri rimasti ad Holot hanno iniziato uno sciopero della fame ad oltranza.

La risposta delle forze dell’ordine è stata brutale. Disperdendo con la forza la manifestazione pacifica hanno effettuato centinaia di arresti deportando nuovamente gli immigrati presso Holot. Le denunce sul lager di Holot sono state confermate il Primo Gennaio 2014 dall’inchiesta del giornalista Ayla Peggy Adler: “This is not a life: A journey to Israel’s ‘open’ detention center” (Questa non è vita. Un viaggio nel centro di detenzione israeliano).

La manifestazione dello scorso dicembre è passata quasi inosservata a livello internazionale grazie alla potente lobby sionista all’interno degli Stati Uniti e dalla reticenza dei media europei di diffondere notizie negative sullo Stato di Israele originata dal senso di colpa per il ripugnante e orrendo Olocausto perpetuato dal Nazismo negli anni Quaranta.

Il genocidio fu la terribile conseguenza di secoli di persecuzione e pulizie etniche perpetuate in Europa contro gli ebrei e la risposta alla teoria del complotto denominata “Piano Ebraico di dominazione mondiale”. Secondo questa folle e irrealistica teoria, nata dopo la Prima Guerra Mondiale, gli ebrei avevano creato potentissime lobby per prendere le redini del capitalismo e, contemporaneamente dominavano i Bolscevichi favorendo la loro presa del potere in Russia.

Gli organizzatori della protesta di massa di Domenica 5 gennaio e dei tre giorni di sciopero generale hanno raggiunto l’obiettivo di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, mettendo così in serie difficoltà il governo israeliano che durante l'amministrazione Obama ha visto il lento deteriorarsi dei rapporti con il suo principale alleato: gli Stati Uniti, culminati con la decisione del presidente Barack Obama di iniziare il disgelo con l’Iran. Questa frattura con gli Stati Uniti è stata in parte compensata dall’appoggio incondizionato allo Stato Ebraico deciso dal presidente francese Francois Hollande, noto per il suo corso reazionario in politica estera che ha creato già due interventi militari in Africa: Mali e Repubblica Centroafricana.

I trentamila manifestanti stanno organizzando una marcia pacifica di protesta e dei sit-in davanti al Parlamento israeliano e davanti alle più importanti ambasciate Occidentali. La proclamazione dello sciopero generale è stata una scelta coraggiosa poiché la maggioranza di questi “infiltrati” lavora in nero presso ristoranti, hotel e ditte israeliane. Gli imprenditori israeliani in questi anni hanno fatto un largo ricorso di questa mano d’opera “illegale” attirati dalla possibilità di attuare sfruttamenti inauditi e offrire paghe irrisorie sicuri che lo stato di clandestinità di questi lavoratori li proteggeva dalle leggi sul lavoro in vigore nel paese.

Le reazioni del governo non si sono fatte attendere limitandosi però a dichiarazioni ufficiali. L’uso della forza contro i manifestanti danneggerebbe irreparabilmente l’immagine democratica che gode Israele, visto che i maggiori network televisivi come Bbc, Cnn, Al-Jazeera, CCTV China e Russian Tv hanno posto la loro attenzione sugli avvenimenti.

Il presidente della Coalizione Likud-Beytenu al potere, MK Yariv Levin ha verbalmente attaccato i manifestanti annunciando ai media nazionali che l’attuale situazione di disordini dimostra chiaramente che gli immigrati clandestini sono una bomba a tempo. L’unica soluzione per neutralizzarla è di espellere tutti gli infiltrati da Israele.

La manifestazione di oggi è solo l’inizio di un processo destinato all’escalation. Sono profondamente dispiaciuto nell’osservare le violenze di strade” ha dichiarato domenica 5 gennaio il Sindaco di Tel-Aviv Ron Huldài commentando la protesta pacifica degli immigrati africani.

Per mantenere l’immagine di promotore di una capitale multi etnica il Sindaco Hildài ha accusato il governo di ignorare le difficoltà che gli immigrati sono costretti a supportare così come le difficoltà e l’insicurezza che i cittadini israeliani soffrono a causa degli infiltrati. Queste affermazioni non devono trarre in inganno. Hildài alla fine del suo discorso domanda al governo maggior determinazione nell’applicare le leggi relative agli infiltrati.

L’ex ministro degli Interni, Eli Yisahi ha dichiarato che questa protesta di massa sottolinea la necessità di applicare al più presto il rimpatrio di tutti gli immigrati clandestini per salvaguardare l'identità e la sicurezza dello Stato Ebraico. “Tel-Aviv è diventata una città africana. Non possiamo rimanere passivi” ha dichiarato Eli Yishai.

Il rimpatrio degli infiltrati è risultato di difficile attuazione. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite relativa alla Statuto di Rifugiati, di cui Israele è firmatario, un paese non può deportare rifugiati se questi possono correre rischi nei loro paesi di origine.

Per raggirare l’ostacolo il governo israeliano ha promosso la controversa opzione del “deportazione volontaria”. Ogni immigrato che accetta di uscire da Israele per ritornare nel suo paese d’origine o in un paese terzo ha diritto ad una compensazione finanziaria.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu a inviato delegazioni diplomatiche in vari paesi africani, tra cui l’Uganda, nella speranza di convincerli ad accogliere gli immigrati africani in cambio di aiuti umanitari e del rafforzamento della cooperazione nei settori agricolo, tecnologico e militare, arrivando ad offrire sostanziali sconti sulle forniture d’armi.

Nessuno paese africano ha accettato la proposta nemmeno l’Uganda che, all’inizio si era dimostrata interessata. Una scelta obbligatoria per il presidente Yoweri Museveni per non attirarsi le ire dell’opinione pubblica interna nonostante che Israele abbia forti investimenti nel paese e sia tra i primi fornitori di armi all’esercito. Il rifiuto è stato forzato dai media ugandesi che hanno prontamente denunciato i tentativi di accordi con Israele.

Per raggiungere l’obiettivo il governo ha iniziato a creare serie difficoltà agli infiltrati negando con vari pretesti l’assistenza sociale, incoraggiando i proprietari di casa a non affittare gli appartamenti agli africani, e i datori di lavoro a licenziarli. La speranza è di rendere finanziariamente insostenibile la vita agli immigrati spingendoli ad accettare il “rimpatrio volontario”. La compensazione economica è stata aumentata da 1.500 a 3.500 dollari. In supporto a questa politica razziale sono iniziati gli arresti e le reclusioni di massa per chi rifiuta il “rimpatrio volontario”.

A meno che i centri di detenzioni non vengano espansi la loro capacità è di circa 10.000 persone. Anche se ogni posto letto viene occupato, 45.000 immigrati continueranno a vivere tra gli israeliani” fa notare un articolo pubblicato sul quotidiano HàAretz.

La protesta degli immigrati africani ha messo il governo in serie difficoltà. L'opinione pubblica internazionale ha puntato l’attenzione sulla sorte degli immigrati e arrivano le prime reazioni ufficiali.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (Unhcr) ha rilasciato un comunicato in cui si accusa Israele di promuovere il terrore e il caos tra gli immigrati illegali che dovrebbero essere trattati come rifugiati e non come infiltrati. “Domandiamo al governo di esaminare le richieste di asilo sottoposte e di bloccare immediatamente gli arresti di massa nel paese” recita il comunicato. Purtroppo la classica ambiguità di Unhcr rischia di minare la sua chiara presa di posizione. L’agenzia umanitaria Onu nel comunicato si dichiara disposta a supportare finanziariamente i centri d’accoglienza, compreso quello di Holot a condizione che non siano trasformati in centri di detenzione. Una dichiarazione contraddittoria alle denunce fatte dagli immigrati evasi da questi centri da loro definiti veri e propri lager.

L’immigrazione dall’Africa negli ultimi anni rappresenta un serio problema per Israele. Migliaia di eritrei e sudanesi si sono riversati nel paese per sfuggire dai rispettivi regimi dittatoriali preferendo Israele all’Europa in quanto il viaggio rappresenta minor rischi rispetto ai tentativi di raggiungere le coste europee come la recente tragedia di Lampedusa dimostra.

Gli immigrati africani rappresentano il 0,68% della popolazione israeliana e nella maggioranza dei casi non hanno provocato un aumento della criminalità e dell’insicurezza interna grazie alla loro volontà di inserirsi nel tessuto sociale ed economico rispettando leggi e costumi del paese. Molti dei loro figli sono nati in Israele, frequentano le scuole e parlano la lingua nazionale, assumendo come naturale la cultura, i costumi israeliani e la religione ebraica.

Un’accurata campagna di disinformazione governativa, supportata dalle autorità religiose ebraiche ed affiancata da violenti attacchi razzisti compiuti da squadracce della estrema destra, è iniziata nel 2012, con l’obiettivo di convincere la popolazione che le violenze e la criminalità nel paese sono unicamente provocate dagli immigrati africani e di terrorizzare quest’ultimi per farli fuggire. Secondo alcuni sondaggi il 42% della popolazione è fermamente convinta che gli immigrati africani rappresentino un pericolo ben più serio di quello del “terrorismo” palestinese.

Questa nefasta propaganda ha portato a dei livelli di razzismo inauditi. Il governo israeliano ha rifiutato di commemorare la morte di Nelson Matiba Mandela e la deputata di origini etiope Pnina Tamno Shata si è vista rifiutare il diritto di contribuire alla banca del sangue in quanto negra quindi portatrice dell’AIDS.

La politica di deportazioni forzate israeliana è pari, nella gravità e nella violazione dei diritti umani di base, solo alle deportazioni razziali di massa compiute dalla Tanzania nel 2013 contro gli immigrati di origine ruandese, burundese e ugandese. La politica razziale contro gli africani si aggiunge all'infinita lista di crimini di guerra e crimini contro l'umanità commessi dallo Stato Ebraico.

Diverso il trattamento degli immigrati israeliani in Africa. Molti di essi sono ben accolti nei vari paesi dove si installano con le loro famiglie ed iniziano importanti attività commerciali ed industriali. Nessun Stato Africano ha mai pensato di accusarli di essere una minaccia per la sicurezza nazionale nonostante che una spaurita minoranza di essi sia strettamente legata alle attività segrete del MOSSAD.

Occorre essere prudenti e a non generalizzare il razzismo in Israele anche se diffuso. Almeno il 40% degli israeliani giudica inaccettabile le politiche razziali contro gli immigrati africani soprattutto in considerazione che il paese è stato fondato da rifugiati sopravvissuti all’Olocausto.

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