Frammenti Africani è un resoconto giornalistico di tematiche complesse del Continente Africano, futuro epicentro economico mondiale, dove coesistono potenze economiche e militari, crescita economica a due cifre, guerre, colpi di stato, masse di giovani disoccupati e una borghesia in piena crescita.
Un mosaico di situazioni contraddittorie documentate da testimonianze di prima mano e accuratamente analizzate per offrire un'informazione approfondita sulla politica, economia e scoperte scientifiche di un mondo in evoluzione pieno di paradossi.
Fulvio Beltrami
Originario del Nord Italia, sposato con un'africana, da dieci anni vivo in Africa, prima a Nairobi ora a Kampala. Ho lavorato nell’ambito degli aiuti umanitari in vari paesi dell'Africa e dell'Asia.
Da qualche anno ho deciso di condividere la mia conoscenza della Regione dei Grandi Laghi (Uganda, Rwanda, Kenya, Tanzania, Burundi, ed Est del Congo RDC) scrivendo articoli sulla regione pubblicati in vari siti web di informazione, come Dillinger, FaiNotizia, African Voices. Dal 2007 ho iniziato la mia carriera professionale come reporter per l’Africa Orientale e Occidentale per L’Indro.
Le fonti delle notizie sono accuratamente scelte tra i mass media regionali, fonti dirette e testimonianze. Un'accurata ricerca dei contesti storici, culturali, sociali e politici è alla base di ogni articolo.
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Gen 15
di Fulvio Beltrami
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L’Africapitalism è una dottrina economica che non può essere realizzata in un clima di isolamento o attraverso politiche nazionalistiche e protezionistiche. Necessità di una collaborazione tra i vari blocchi economici esistenti o parte di essi assieme alle principali istituzioni politiche e finanziarie internazionali quali Unione Africa, Banca Mondiale, Banca Africana per lo Sviluppo, Fondo Monetario Internazionale.
Questa sinergia potrebbe essere praticabile partendo dal constato che l’attuale politica neo coloniale ha raggiunto i suoi limiti storici. Un insieme di paesi instabili, sottosviluppati e in constante rischio di guerre di frontiere o guerre civili non conviene più a nessuno.
Le energie e i fondi spesi per stabilizzare i vari paesi e modellarli alle esigenze Occidentali e Asiatiche per accedere alle materie prime e idrocarburi stanno progressivamente superando i profitti che le multinazionali possono trarre.
Nel primo decennio degli anni Duemila una lezione storica è emersa con forza agli occhi delle maggiori potenze imperialiste mondiali. I vari interventi militari diretti o indiretti per ottenere cambiamenti di regimi e le contrapposizioni economiche e o politiche ottengono spesso risultati opposti da quelli sperati.
Gli esempi della Libia, Mali, Repubblica Centrafricana, Congo, Somalia in Africa così come l’Iraq e la Siria in Medio Oriente o l'Afghanistan in Asia insegnano che una volta accesa la miccia, il conflitto prende direzioni non sempre prevedibili che seguono le dinamiche locali spesso di difficile comprensione.
L’accanimento ideologico contro paesi appartenenti al “asse del male”, per usare l’anacronistica definizione dell'ex presidente americano George Bush, crea una mancanza di penetrazione in interessanti mercati come Cuba, controreazioni e nazionalismo come nel caso del Venezuela abbinate ad un aumento dell'aggressività militare o terroristica degli stati vittime di sanzioni economiche ed isolamento politico come l’Iran.
Le aperture politiche ed economiche decise dall'amministrazione Obama verso Cuba, Iran e Sudan non sono state dovute ad un improvviso cambiamento ideologico, o ad un slittamento del governo americano verso idee di sinistra ma dal semplice domanda: quanti miliardi di dollari sono stati persi in relazioni economiche mancate e mercati persi durante tutti questi decenni di scontri ideologici con i paesi del male? La risposta a cui l'amministrazione Obama è giunta è altrettanto semplice: troppi!
La spiegazione risiede sulla legge fisica che vede ad ogni atto una reazione e una conseguenza. Più un paese si sente isolato e minacciato più diventa aggressivo, sviluppa mezzi di distruzione e una necessità di destabilizzare il nemico, per esempio finanziando e utilizzando le varie forme di terrorismo internazionale.
Anche i paesi più dittatoriali e ripiegati su se stessi come la Repubblica Democratica Popolare della Corea, possono essere lentamente trasformati grazie alle relazioni economiche e agli investimenti. Gli stessi stati considerati nemici mortali possono trovare un intesa e una collaborazione basata su una convergenza di interessi economici. L’esempio del Sudan è illuminante. Nonostante che il regime di Khartoum è considerato una dittatura islamica e il suo presidente: Omar El-Bachir sia soggetto di un mandato d’arresto spiccato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e contro l'umanità commessi nel Darfur, il Sudan è il principale alleato degli Stati Uniti nella lotta e nel contenimento di Al Qaeda in Africa.
Il concetto di collaborazione sembra essere stato compreso da India e Pakistan, nemici giurati fin dall’indipendenza del Subcontinente Indiano. Dal 2006 si sta assistendo ad una timida ma progressiva fase di disgelo che sta evitando una destabilizzazione regionale causata da un conflitto Indo-Pakistanese con possibilità di degenerare in un conflitto nucleare, aumentando gli scambi economici, quindi i profitti, tra i due Paesi.
In questa collaborazione, saldata da mutui interessi, ogni attore deve svolgere il compito assegnatogli.
I governi Africani devono creare o rafforzare politiche indirizzate a ridurre gli attuali costi e tempi amministrativi che rendono vari paesi non attraenti agli investitori internazionali, nonostante la loro stabilità interna. Gli Stati Africani devono ridurre i tempi necessari per aprire investimenti nel paese, semplificare le pratiche amministrative tramite un processo informatizzato funzionale, chiaro e semplice, diminuire le tariffe doganali e facilitare le politiche immigratorie per quanto riguarda i permessi di lavoro per gli stranieri. Queste politiche attirano gli investimenti e creano nuove opportunità di lavoro.
L’esempio per eccellenza che questa tattica funziona è il Rwanda, il miglior paese africano per la facilità e la sicurezza degli investimenti. Dal 2000 ha rivoluzionato ogni aspetto inerente alle difficoltà di installazione degli investitori attraverso revisione legislative, agevolazioni fiscali mirate, miglioramento dell’efficacia amministrativa, drastica diminuzione della corruzione e all’installazione di un sistema informatico futuristico. In Rwanda il lasso di tempo necessario per gli investitori stranieri per aprire una società ed iniziare le attività è di 20 giorni. Un record rispetto ai tre mesi di media necessari negli altri paesi della East African Community (Burundi, Kenya, Tanzania, Uganda). Tutte le pratiche sono online: dall’ottenimento del visto, permesso di lavoro, permessi aziendali, registrazione societaria, tasse, pagamento tariffe doganali, e così via.
Queste politiche sono vitali per gli investimenti internazionali. Il progetto pilota della Microsoft di espandere l’accesso internet in Africa dipende dalla capacità dei vari governi africani di facilitare gli investimenti e offrire in tempi brevi le migliori condizioni di lavoro possibili.
La riforma dei servizi finanziari attuata da diversi paesi africani, a partire dalla Nigeria, necessita di un contesto Pan-Africano facilitato affinché le istituzioni Continentali quali la Banca Africana per lo Sviluppo o la Banca Unita per l’Africa non riscontrino particolari difficoltà nel finanziare e sostenere le varie riforme in atto.
Dal campo opposto le multinazionali si devono impegnare a creare una collaborazione trasparente con i governi Africani creando un clima di fiducia economica reciproca.
Questa trasparenza non risiede in astratte dichiarazioni di buoni intenti ma in azioni reali che implicano obblighi e doveri.
Se da una parte i governi africani devono assicurare un ambiente protetto e favorevole per gli investimenti, le multinazionali devono rispettare la trasparenza fiscale, accettare verifica finanziarie, evitare gli investimenti speculativi privilegiando quelli produttivi capaci di sostenere la crescita economica, rispettare il carico fiscale concordato con il governo nel reciproco interesse, diminuire la disoccupazione attraverso la formazione della mano d’opera nazionale senza creare un'inflazione di mano d’opera esterna come fanno al momento la maggior parte delle multinazionali cinesi.
Quali sono le priorità di investimenti nel Continente?
Prima tra tutte la creazione di adeguate infrastrutture e l’avvio alla rivoluzione industriale. Gli investimenti nelle infrastrutture, soprattutto nei settori energetico, cibernetico, trasporti sono il primo pilastro fondamentale affinché gli investimenti possano capitalizzare profitti adeguati per entrambi i partner.
Attualmente il 70% dell’Africa Sub Sahariana soffre di un deficit di rete energetica insufficiente per l’uso civile e industriale. Inoltre le tariffe sono le più alte del pianeta. Un'accesso civile ed economico ad una rete energetica su tutto il territorio nazionale è vitale per ogni investimento che voglia essere orientabile e proficuo. Gli Stati Uniti si sono impegnati a finanziare un mega progetto di potenziamento energetico in 14 Stati Africani.
Le infrastrutture dei trasporti, su gomma, ferroviari, fluviali, marittimi e aeree hanno un enorme impatto sugli investimenti. I progetti in fase di prossima realizzazione come le super strade Kenya-Tanzania, Uganda-Sud Sudan, Rwanda-Congo sono le uniche possibilità per assicurare non solo gli investimenti produttivi efficaci ma la vitale integrazione regionale per facilitare il trasporto di prodotti agricoli e industriali destinati ai mercati regionali e internazionali. Un’integrazione capace anche di diminuire le latenti potenzialità di conflitti territoriali e etnici.
Varie multinazionali come Diageo, Wal-Mart, Barclays Bank e Microsoft si sono impegnate a partecipare a questi progetti di infrastrutture dei trasporti. Una mancata collaborazione con i governi porta le multinazionali a supportare immensi costi per creare le proprie infrastrutture che comprimono i profitti o aumentano il periodo di avviamento delle attività prima di capitalizzare i primi profitti.
L’esempio più emblematico risiede nella più grande mina d’oro africana situata a Kibali, est della Repubblica Democratica del Congo. La multinazionale anglosassone Anglo-American Gold e la multinazionale logistica sudafricana Group 5, che gestiscono la mina di Kibali, sono state costrette a studiare la costruzione di oltre quattro cento km di strada per collegare la mina alla rete stradale del vicino Uganda al fine di facilitare il passaggio giornaliero delle decine di camion e diminuire i tempi di trasporto.
Il governo di Kinshasa non intende partecipare alla spesa. Al contrario le amministrazioni locali vogliono approfittare per chiedere compensi finanziari per deliberare i necessari permessi ai lavori, costringendo le due multinazionali a contribuire all’aumento della corruzione del paese. Se questo non bastasse Anglo-American e Group 5 devono pagare l’esercito congolese per ottenere la necessaria protezione e sicurezza, essendo la mina ubicata in una zona infestata da varie milizie e Signori della Guerra, che a loro volta chiedono il pizzo per non disturbare sia le attività minerarie che il flusso continuo di camion provenienti dall’Uganda. Con tutte le spese dovute alla mancanza di collaborazione l’unico fattore che rende proficuo la mina di Kibali è l’enorme quantità d’oro contenuta.
Questo è un classico esempio di mancata collaborazione estremamente nocivo per il paese africano e per la multinazionale, che genera anomalie, continue conflittualità, e azioni nocive e illegali. Dinnanzi all’atteggiamento parassitario di Kinshasa Anglo-American rifiuta di contribuire allo sviluppo della provincia, preferisce impiegare mano d’opera straniera, falsificare i libri contabili per l’evasione fiscale. Anche la futura produzione d’oro prevista per il 2016 sarà sicuramente sottostimata dalla multinazionale per risparmiare sulle royalities dovute al governo.
La creazione di un network informatico continentale è vitale per il commercio e le transazioni finanziarie. Due grossi progetti sono in fase di realizzazione sulla parte Orientale dell’Africa e nel centro-sud del Continente. L’Africa del Nord può economicamente e facilmente essere collegata al network europeo. Il compito è stato preso in carico dalla Cina.
Il secondo pilastro per lo sviluppo dell’Africa è attivare il processo di rivoluzione industriale costruendo industria pesante e fabbriche agroalimentari per permettere all’Africa di aumentare l’attuale irrisoria capacità di creare prodotti finiti da immettere sui mercati nazionale, regionale, continentale e internazionale, utilizzando le proprie risorse naturali.
Questo pilastro si scontra contro la forte resistenza delle potenze occidentali e asiatiche ancora ancorate alle logiche economiche coloniali che identificano l’Africa unicamente come un grande serbatoio di materie prime necessarie per le loro industrie o come una vasta distesa di terre fertili per coltivare gli alimenti necessari per nutrire le proprie popolazioni.
“Durante tutta la fase dell’espansionismo coloniale, dai suoi primordi al suo apogeo, Inghilterra e Francia avevano ben compreso che non potevano conquistare il Continente contando sui propri eserciti. Nonostante la tecnologia e la potenza di fuoco a disposizione, i soldati europei morivano come mosche, vittime di comuni malattie africane a loro mortali. È stato necessario creare alleanze, utilizzare truppe indigene, formare un’amministrazione locale per poter governare le loro colonie d’oltre mare.
La manna delle materie prime a buon mercato sta per finire. I paesi africani pretendono lo sviluppo e l’attuale economia di export coloniale lo impedisce. Per esempio, la Nigeria, primo produttore di petrolio in Africa e uno tra i più grandi paesi del Continente è costretta a spendere miliardi di euro all’anno per importare carburanti e prodotti alimentari. È una situazione insostenibile anche per il paese africano il più servile all’Occidente e corrotto.
Dinnanzi alle spinte nazionalistiche che stanno emergendo in Africa, l’Occidente non potrà continuare a rispondere con la forza. La Francia in questo momento è impegnata in due guerre dirette: Mali e Repubblica Centroafricana e una guerra indiretta nella Regione dei Grandi Laghi con epicentro l’est del Congo. Quanto credete che potrà durare lo sforzo finanziario necessario per la Francia al fine di sostenere questa situazione, in una situazione di crisi economica interna?
Non è un caso che, dinnanzi alla decisione irremovibile dell’Uganda di utilizzare i recenti giacimenti petroliferi per la produzione autoctona di carburanti e derivati da vendere sul mercato nazionale e regionale, le multinazionali occidentali e asiatiche (Tullow, Total e la multinazionale petrolifera statale cinese) hanno finito per collaborare. Che alternative avevano? Dichiarare guerra all’Uganda? Creare una ribellione all’interno del paese? Questi metodi sono diventati costosissimi e sempre meno efficaci. Molti paesi africani impongono joint venture dove lo Stato detiene il 51% della proprietà e dei profitti. Se le multinazionali occidentali non accettano ci sono sempre quelle asiatiche, la Russia, il Brasile. La concorrenza è spietata.”, osserva Elumelu.
Il terzo pilastro risiede nella capacità di contenere le rivolte sociali dannose per gli affari e la crescita economica. Dagli anni Novanta la maggior parte delle dittature africane hanno dovuto lasciare il posto a democrazie più o meno controllate. Le dittature che non hanno voluto adeguarsi sono state spazzate via dalla rabbia popolare, vedi Libia, Tunisia, Egitto.
Il malcontento sociale è maggiormente pericoloso nell’Africa Sub-Sahariana poiché rischia di assumere connotati etnici e tribali che potrebbero ricreare l’orribile scenario del 1994 in Rwanda.
Vari despoti illuminati, come il presidente ugandese Yoweri Museveni, al potere da 27 anni, stanno cercando una via d’uscita, al momento attuata con l'instaurazione di una democrazia controllata. Tuttavia questi despoti stanno giungendo ad un bivio: passare le redini del potere o affrontare una rivolta popolare che potrebbe avere conseguenze fatali.
Il presidente Museveni sta puntando a creare il benessere e lo sviluppo economico sufficienti per permettergli di passare il testimone e continuare a interagire sulle sorti del paese per procura, dietro le quinte.
L’unica possibilità per evitare sconvolgenti rivolte popolari è quella di aumentare il reddito pro-capite, la piccola e media borghesia, controllare l’inflazione e la stabilità monetaria, avviare politiche keneysiane capaci di assicurare adeguati servizi sociali, sanità ed educazione accessibile alle masse.
Secondo l’economista nigeriano Elumelu le politiche Keneysiane sono necessarie per assicurare tranquillità e prosperità al libero mercato che a sua volta deve contenere gli eccessi attuati negli anni Novanta e Duemila che hanno portato all’attuale crisi mondiale.
Lo sviluppo del Continente è legato alla capacità di coniugare le due contrapposte filosofie economiche per tendere al successo comune.
Questo implica una stretta collaborazione tra Pubblico e Privato dove nessuno dei due attori possa prevalere sull’altro.
Il Privato ha l’obbligo di rispettare le politiche fiscali, partecipare allo sviluppo della comunità, alla creazione dell’assistenza sociale e di aumentare l’occupazione, quindi il potere d’acquisto del proletariato urbano e rurale che porterà inevitabilmente ad un aumento dei consumi.
Il Pubblico ha l'obbligo di mettere in atto un’amministrazione efficiente basata non su criteri clientelari o tribali ma sulle logiche lavorative del privato, privilegiando l’utilizzo di tecnocrati. Le entrate provenienti dalle royalities, dai profitti comuni nelle joint venture internazionali e dal sistema fiscale devono essere sapientemente utilizzate per il bene comune diminuendo a livelli accettabili la corruzione.
I governi dall'attuale fase di confronto con le masse devono divenire un modello accetto e sufficientemente onesto ed efficiente da poter conquistare la fiducia di una considerevole percentuale della popolazione canalizzata sul concetto di bene collettivo e identità nazionale a detrimento del sistema tribale e delle logiche etniche, le uniche, in questo momento, capaci di proteggere l’individuo ma anche causa della sua rovina e potenziali rischi alla nazione.
Le sfide per applicare il Africapitalismo sono immense e all’apparenza si scontrano con interessi contrapposti. Chi deriderebbe confrontarsi con un nuovo blocco economico che contiene al suo interno le maggiori ricchezze planetarie abbinate ad una moderna capacità produttiva?
Eppure, come afferma il magnate nigeriano, le opzioni alternative sono poche, costose e con alti rischi di fallimento. Una volta che una potenza occidentale ha perso una guerra d’occupazione o ha destabilizzato un intero paese si preclude automaticamente le possibilità di un sano investimento e di ottimi profitti. Gli esempi di Libia e Congo sono illuminanti.
“Occorre arrendersi all’evidenza. La conflittualità e le guerre non sono produttive se non per l’industria degli armamenti.
Continui focolai di instabilità nel mondo non sono più gestibili e generano forze centrifughe sempre più dannose per gli affari.
Per sopravvivere il pianeta necessita di un riequilibrio dei centri di potere economico.
Ovvio che si assisterà a un ridimensionamento dell’attuale potere in Europa e Stati Uniti ma sarà per loro salutare poiché non possiedono più le energie finanziarie per mantenere l’attuale disequilibrio.
Un loro declino causato da una conflittualità perenne su scala mondiale sarà una catastrofe.
Il futuro è la mutua collaborazione basata sui mutui interessi per la rinasciata dell’Africa che gioverà, credetemi, all’ecomomia mondiale”, conclude Elemelu
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