Frammenti Africani è un resoconto giornalistico di tematiche complesse del Continente Africano, futuro epicentro economico mondiale, dove coesistono potenze economiche e militari, crescita economica a due cifre, guerre, colpi di stato, masse di giovani disoccupati e una borghesia in piena crescita.
Un mosaico di situazioni contraddittorie documentate da testimonianze di prima mano e accuratamente analizzate per offrire un'informazione approfondita sulla politica, economia e scoperte scientifiche di un mondo in evoluzione pieno di paradossi.
Fulvio Beltrami
Originario del Nord Italia, sposato con un'africana, da dieci anni vivo in Africa, prima a Nairobi ora a Kampala. Ho lavorato nell’ambito degli aiuti umanitari in vari paesi dell'Africa e dell'Asia.
Da qualche anno ho deciso di condividere la mia conoscenza della Regione dei Grandi Laghi (Uganda, Rwanda, Kenya, Tanzania, Burundi, ed Est del Congo RDC) scrivendo articoli sulla regione pubblicati in vari siti web di informazione, come Dillinger, FaiNotizia, African Voices. Dal 2007 ho iniziato la mia carriera professionale come reporter per l’Africa Orientale e Occidentale per L’Indro.
Le fonti delle notizie sono accuratamente scelte tra i mass media regionali, fonti dirette e testimonianze. Un'accurata ricerca dei contesti storici, culturali, sociali e politici è alla base di ogni articolo.
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Apr 5
di Fulvio Beltrami
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I Paesi Africani corrono il rischio di rivolte popolari e rivoluzioni se non sarà al più presto risolto il problema della disoccupazione giovanile. Nonostante il progressivo sviluppo economico e la diminuzione della povertà, milioni di giovani sono esclusi dal mercato del lavoro. La loro esclusione crea la vulnerabilità verso i fenomeni criminali e a vere e proprie sommosse popolari.
Questo é il grido dall’allarme lanciato da Banca Mondiale nel suo ultimo rapporto pubblicato sul tema: “Inclusion Matters: the foundation for shared prosperity” (Il problema della inclusione sociale: le basi per una prosperità condivisa).
Il fenomeno della disoccupazione in Africa riguarda circa 32 milioni di giovani e la situazione andrà peggiorando essendoci un netto divario tra crescita demografica e possibilità di impiego. Attualmente metà della popolazione Africana ha meno di 14 anni. Ogni anno 11 milioni di giovani si immettono sul mercato del lavoro. La crescita occupazionale del 10% registrata in vari Paesi Africani come Ghana e Tanzania non é sufficiente per assorbire tutta questa mano d’opera disponibile. Le donne sono particolarmente svantaggiate a causa della difficoltà ad accedere alla educazione.
La Banca Mondiale in collaborazione con la International Labur Organisation – ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), propone una soluzione: orientare il surplus della mano d’opera verso il mercato informale, prevalentemente dominato da commercio e servizi di bassa qualità.
“Il settore informale assorbirà la maggioranza dei nuovi lavori nei prossimi 15 anni. Quindi se si ricerca un settore produttivo che possa diminuire indesiderabilmente la disoccupazione giovanile occorre orientarsi verso il settore informale”, spiega Philippe Dongier Responsabile della Banca Mondiale per il Burundi, Tanzania e Uganda.
Le due organizzazioni internazionali analizzano anche il settore tradizionalmente legato alle possibilità occupazionali: quello educativo, individuando come principale problema la qualità offerta nelle scuole pubbliche. Secondo gli esperti occorre che i Governi garantiscano una educazione di qualità concentrata sulla formazione tecnica e successivamente completata da apprendistato e stage per facilitare l'ingresso occupazionale dei giovani. “Nonostante che l’educazione di massa sia promossa da molti Paesi Africani, gli sforzi non sono stati sufficientemente orientati verso la qualità. Per esempio la qualità dell’educazione in Uganda é inferiore del 45% rispetto agli standard internazionali. Occorre che i Governi indirizzino maggior attenzioni e finanziamenti nell’educazione”, spiega Philippe Dongier.
Per sottolineare le possibilità che offre il settore informale non ci si dimentica di illustrare varie “Success Stories” (le storie di successo), tutte con un unica trama: giovani disoccupati e poveri che iniziano un piccolo commercio con un capitale inferiore ai 5 euro, divenendo ricchi commercianti con un capitale di 10 o 20.000 euro grazie alla loro creatività e costante impegno.
Le Success Stories sono tipici strumenti della propaganda anglosassone del libero mercato tesi ad offrire una realtà irreale spesso prefabbricata ad hoc per convincere il probabile “cliente” ad affiliarsi ad un network di vendita per corrispondenza, lavori di rappresentanza, prestazioni di servizi online e lavoro a domicilio. Spesso queste storie sono del tutto inventate.
Anche i rari esempi genuini non possono rappresentare la realtà in un determinato settore. Il successo di una donna contadina povera ugandese che inizia a vendere dei pomodori con un capitale iniziale di 4 euro per trovarsi dopo sei anni a gestire una piccola azienda agricola con un capitale di 16.000 euro spesso é collegato a fattori esterni quali: aiuto ricevuto da qualche Organizzazione Umanitaria, da familiari, o dal amante o coniuge facoltoso ugandese o straniero che sia. Tutti fattori che normalmente non rientrano nella casistica delle opportunità destinate alla maggioranza della popolazione.
L’unico obiettivo delle Success Story é quello di trasformare nel immaginario collettivo il sogno realtà per aumentare la schiera di collaboratori – clienti aumentando i profitti e lo sfruttamento libero da vincoli legali e sindacali.
Le soluzioni proposte dalla Banca Mondiale e dalla ILO in realtà sono delle non soluzioni, offerte per non evidenziare le vere cause della disoccupazione strettamente legate alla mancata crescita dei principali settori produttivi: agricoltura, artigianato ed industria e ai disequilibri di classe. Dopo trent’anni di politiche di austerità e libero mercato, la Banca Mondiale inizia a preoccuparsi della elusione sociale che essa stessa a creato non solo in Africa ma a scala planetaria. Una preoccupazione probabilmente dettata dalla spinta emotiva scaturita dallo scoppio delle Primavere Arabe nel 2011.
Al posto di incoraggiare il Governi a promuovere finanziamenti per avviare il processo di industrializzazione, si propongono orientamenti in un settore marginale del mercato mondiale esistente da 50 anni. L’economia informale rappresenta un semplice parcheggio della forza lavoro che vi accede a causa della esclusione dal mercato occupazionale. Vendere crediti telefonici per conto delle grandi Compagnie Telecom, sigarette, giornali, prodotti di bellezza, film piratati, possedere o gestire un piccolo negozietto alimentare é certamente una temporanea garanzia di sopravvivenza.
Purtroppo il carattere precario di queste occupazioni e la difficoltà ad accedere ai crediti bancari per sviluppare la propria attività, diminuiscono fortemente le possibilità di uscire dal ciclo di povertà permanente superando il reddito di 1,5 euro al giorno. Vari settori informali offrono guadagni solo per la sopravvivenza non sufficienti a garantire gli studi ai propri figli o le cure mediche ed alloggi dignitosi alla famiglia. Spesso queste occupazioni informali sono associate a fenomeni di piccola criminalità e di prostituzione. Un venditore ambulante può essere alettato a diventare contemporaneamente un piccolo spacciatore trasformando la sua occupazione originaria in una copertura. Una giovane ragazza é stimolata ad arrotondare con prestazioni sessuali che offrono possibilità di guadagni per un’ora o due di “servizio”, quattro volte superiori al incasso giornaliero in una piccola alimentazione. Il settore informale é anche estremamente dannoso per l’economia nazionale sfuggendo alle obbligazioni fiscali e alla contribuzione per la sicurezza sociale e pensionistica.
Non é sufficiente constatare la bassa qualità della educazione pubblica quando la Banca Mondiale ha incoraggiato dagli anni Novanta la scuola privata in tutti i Paesi in Via di Sviluppo. La bassa qualità della scuola pubblica é una scelta politica di vari Ministri della Educazione per favorire gli istituti educativi internazionali (quali Aga Khan International School o Cambridge International School) e le scuole private Protestanti e Cattoliche, tramite un stretto connubio di interessi basati sulla corruzione. L’educazione di qualità é disponibile in Africa ma volutamente relegata alle scuole private, destinando le scuole pubbliche a chi non ha i mezzi finanziari per supportare rette scolastiche mensili di 300 euro, creando cosí una barriera per le classi piú povere che impedisce di accedere a lavori qualificati e ben retribuiti.
Le disparità sociali accennate nel rapporto sono state causate dal indirizzo economico imposto per trenta anni da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. Indirizzo basato sul libero mercato, privatizzazioni selvagge e mancato sviluppo dello Stato Sociale. Questo orientamento liberista necessita Stati deboli e corrotti che vengono esentati dalle loro responsabilità verso i propri cittadini trasformandoli in meri centri di servizi per facilitare i mercati delle Corporation. La classe dirigente corrotta africana é stata creata dal libero mercato per esentare queste Corporation dagli obblighi fiscali e sociali aumentando così i profitti aziendali.
Gli esempi citati nel rapporto tra i quali il Kenya, dove il 10% della popolazione detiene il 40% delle ricchezze) non sono seguiti da chiare proposte per una migliore distribuzione delle ricchezze come per esempio la fine delle esenzioni decennali dalle tasse per le Corporation che privano i governi africani di miliardi di euro annui di entrate che potrebbero essere utilizzati nella assistenza sociale, infrastrutture e sviluppo economico. Le realtà riportate nel rapporto, come il Kenya, sono paradossalmente migliori di quelle di alcuni Paesi Industrializzati. Negli Stati Uniti é il 1% che detiene il 52% delle ricchezze nazionali...
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro, proponendo ai giovani disoccupati la soluzione del settore informale li condanna ad una vita priva di sicurezze sociali e stabilità occupazionale. La stessa enfasi non viene utilizzata per combattere i bassi salari e l’assenza di chiare leggi in difesa dei diritti dei lavoratori. Molti Paesi Africani sono privi di salari minimi garantiti. In altri questi salari non sono stati rivisti da almeno vent’anni. In Uganda, per esempio, il salario minimo mensile é valutato a 15.000 scellini (4,5 euro), somma stabilita nel 1972 e attualmente sufficiente per due giorni di alimentazione di base per un nucleo familiare di quattro persone. Come si sta assistendo in Occidente, anche in Africa, il fenomeno della povertà occupazionale dettata da salari irrisori, al mancato rispetto dei codici del lavoro e all’assenza di sindacalizzazione, sta raggiungendo livelli allarmanti, deprimendo il potere d’acquisto e di conseguenza il mercato interno.
Il rapporto presentato dai due Organismi Internazionali ha anche l’ironico pregio di non presentare soluzioni originali. L’indirizzo sulla economia informale per alleviare la povertà e la disoccupazione é stato già proposto dalla fine degli anni Novanta da varie Ong Internazionali e Agenzie Umanitarie delle Nazioni Unite.
Vari milioni di euro sono stati spesi per finanziare le più disperate iniziative di piccolo commercio informale senza alcun risultato poiché la povertà non può generare che altra povertà. Una moderna economia non può basarsi sul settore informale. Il mercato non può essere alimentato da una miriade di piccoli redditi prodotti da un esercito di piccolissimi commercianti che sono allo stesso tempo consumatori ma non produttori.
Presentare il settore informale come un concreto sbocco occupazionale risulta estremamente irreale. La maggioranza della popolazione é stata costretta dalla disoccupazione ad entrare in questo settore sperando di accedere al più presto possibile ad un vero lavoro. Nessuno considera il settore informale come una possibilità di sviluppo economico e sociale. Solo un temporaneo aiuto a sopravvivere che diventa maledizione e condanna se il lavoro informale si cronicizza trasformandosi nella unica fonte di entrate.
Anche il binomio disoccupazione rischio di rivoluzioni presentato nel rapporto é privo di una analisi del contesto politico e storico della maggioranza dei Paesi della Africa Sub-Sahariana. L’assenza di partiti di sinistra non permette di canalizzare il malcontento popolare verso un progetto di cambiamento economico e politico della società. Per allontanare il rischio rivoluzionario, istituzioni come la Banca Mondiale, hanno negativamente interagito con il Continente per quasi cinquanta anni con l’obiettivo di cancellare ogni maturo movimento politico privilegiando la costituzione di partiti su base di interessi personali ed etnici.
Enormi sforzi sono stati attuati per riformare i movimenti storici nati nel post indipendenza: dal Movimento Popolare per la Liberazione della Angola, al Movimento Rivoluzionario Nazionale ugandese. Dal Fronte Patriottico Ruandese al ANC Congress. Le principali potenze africane emergenti sono guidate da ex marxisti riconvertiti al libero mercato: José Eduardo Dos Santos (Angola) , Yoweri Museveni (Uganda), Paul Kagame (Rwanda), Jacob Zuma (Sud Africa). I leader di sinistra africani che sono stati coerenti con le proprie convinzioni politiche rientrano nella storia e mitologia del Continente, essendo stati fisicamente eliminati.
In molti Paesi Africani si é cancellato il concetto della politica tesa alla trasformazione socio economica. Una cancellazione che inizia dai Curriculum scolastici che escludono i riferimenti storici. A titolo di esempio solo il 12% degli studenti universitari ugandesi della facoltà di scienze politiche ha una conoscenza approfondita delle teorie economiche marxiste, socialiste, social democratiche, kenesiane e non ha alcuna possibilità di analizzare attentamente i pro e contro di queste teorie applicate in vari altri Paesi come quelli del Nord Europa o Latino Americani. L’unica conoscenza approfondita riguarda le teorie del libero mercato.
Nei Paesi della Africa Sub-Sahariana il malcontento popolare viene strumentalizzato dai politici e Signori della Guerra per promuovere le proprie agende tese alla conquista del potere assoluto. Altissime sono le possibilità che i giovani disoccupati africani vengano trasformati in bande di holligans assunti con metodi di caporalato dai politici per “far numero” a manifestazioni di protesta tese a rafforzare la loro influenza e prestigio. Altissime sono anche le possibilità di utilizzare i giovani disoccupati per rafforzare l’esercito di miliziani arruolati nelle varie guerriglie ormai prive di qualsiasi ideologia che non sia basata su ambizioni personali dei leader o su rivendicazioni etniche. Gli esempi recenti piú lampanti sono l’arruolamento nelle varie guerriglie operative al est della Repubblica Democratica del Congo e le milizie Séléka e quelle cristiane nella Repubblica Centroafricana. Difficilmente ai giovani viene offerto un progetto politico di trasformazione della società, esclusi rari casi quali Burkina Faso o Sud Africa.
La soluzione alla disoccupazione avviene attraverso la promozione dei settori agricolo e industriale. Felix Fofana N’Zue, Direttore della Unità di Scienze Economiche della Comunità Economica degli Stati Orientali dell’Africa (ECOWAS), si discosta dalle sterili proposte della Banca Mondiale proponendo concreti settori idonei a diminuire la disoccupazione giovanile, quali quello agricolo che rappresenta in vari Paesi Africani il 70% della occupazione.
“Questo importante settore produttivo non viene sufficientemente preso in considerazione dai Governi Africani che non formano nemmeno esperti. In Senegal, per esempio, l’agricoltura rappresenta quasi il 80% della forza lavoro ma le Università nazionali privilegiano facoltà di scienze politiche, umanistiche e relazioni internazionali. Vi é una drammatica carenza di esperti agronomi, veterinari, economisti e direttori di aziende agroalimentari.”, spiega N'Zue.
Purtroppo la Banca Mondiale continua ad essere orientata ad imporre all’Africa un modello di economia coloniale per impedire il pericoloso sviluppo di un Continente che detiene la maggioranza dei minerali mondiali. Uno sviluppo industriale della agricoltura comprometterebbe le esportazioni agricole verso l’Occidente e lo sfruttamento delle multinazionali dei latifondi per produrre cibo destinato ad alimentare popolazioni Europee, Medio Orientali e Americane o per la produzione di bio carburanti.
Una rivoluzione industriale basa sulla nascita della industria pesante, quella manifatturiera e dell’industria di componentistica informatica, comprometterebbe le esportazioni delle materie prime, vitali per le industrie occidentali, diminuendo sensibilment la possibilità del Occidente di importare in Africa prodotti finiti da quelli alimentari a quelli della alta tecnologia. Non é un caso che l’unico settore produttivo moderno promosso dalla Banca Mondiale sia quello degli idrocarburi, che non crea molte possibilità occupazionali ma garantisce il continuo afflusso di petrolio e gas ai Paesi Industrializzati.
Le potenze economiche del BRICS, quali Cina, Brasile, Russia, da questa fase coloniale (attuata dal 1990 fino al 2010) sono passati a quella produttiva, canalizzando gli investimenti verso la creazione di unità produttive in Africa capaci di offrire lavoro e stipendi reali. Questo orientamento non é stato preceduto dalla pubblicazioni di rapporti. Si é basato semplicemente su un concetto facile da comprendere: solo gli investimenti produttivi sono in grado di creare occupazione, aumentare l’esercito dei consumatori e rafforzare il mercato.
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