Uganda. Una diversa gestione degli immigrati

Frammenti Africani

Frammenti Africani è un resoconto giornalistico di tematiche complesse del Continente Africano, futuro epicentro economico mondiale, dove coesistono potenze economiche e militari, crescita economica a due cifre, guerre, colpi di stato, masse di giovani disoccupati e una borghesia in piena crescita.
Un mosaico di situazioni contraddittorie documentate da testimonianze di prima mano e accuratamente analizzate per offrire un'informazione approfondita sulla politica, economia e scoperte scientifiche di un mondo in evoluzione pieno di paradossi.

Fulvio Beltrami

Fulvio Beltrami
Originario del Nord Italia, sposato con un'africana, da dieci anni vivo in Africa, prima a Nairobi ora a Kampala. Ho lavorato nell’ambito degli aiuti umanitari in vari paesi dell'Africa e dell'Asia.
Da qualche anno ho deciso di condividere la mia conoscenza della Regione dei Grandi Laghi (Uganda, Rwanda, Kenya, Tanzania, Burundi, ed Est del Congo RDC) scrivendo articoli sulla regione pubblicati in vari siti web di informazione, come Dillinger, FaiNotizia, African Voices. Dal 2007 ho iniziato la mia carriera professionale come reporter per l’Africa Orientale e Occidentale per L’Indro.
Le fonti delle notizie sono accuratamente scelte tra i mass media regionali, fonti dirette e testimonianze. Un'accurata ricerca dei contesti storici, culturali, sociali e politici è alla base di ogni articolo.

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Set 7

Uganda. Una diversa gestione degli immigrati

Una ragionata politica di porte aperte verso gli immigrati è giusta a livello umanitario ma irrealizzabile sul piano pratico. Eppure un paese in via di sviluppo dimostra il contrario: l’Uganda

di Fulvio Beltrami

uganda

In questi ultimi mesi è di drammatica attualità la crisi migratoria in Europa. Iniziata dalle rotte classiche del Mediterraneo (Italia e Spagna) ora si sta sviluppando su nuove rotte come quella dei Balcani incontrando resistenza e repressione da governi di paesi indeboliti dalla crisi economica e avvelenati dal nazionalismo che sono terrorizzati dell’instabilità sociale che l’immigrazione potrebbe loro portare. Un calvario che riguarda anche l’Africa ma soprattutto profughi provenienti da una guerra civile di cui l’occidente ha forti responsabilità: quella combattuta in Siria.

Le destre europee inneggiano al pericolo di invasione mentre il popolo di sinistra si abbandona ad una politica di porte aperte giusta a livello umanitario ma irrealizzabile dicono molti. La capacità di ogni paese di assorbire gli immigrati dipende dal mantenimento dell’equilibrio tra pressione demografica e risorse del paese ospitante. La maggioranza dei paesi europei sono in crisi economica e le risorse sono ormai limitate. L’arrivo di migranti altera l’equilibrio aumentando la pressione demografica e danneggiando la società ospitante. Una situazione intollerabile che richiede la difesa delle frontiere e la lotta contro i flussi migratori.

Eppure questa teoria sembra essere smentita da un paese del terzo mondo che si appresta solo da un decennio a diventare un paese sviluppato: l’Uganda. Il paese africano, definito dai colonizzatori inglesi “la Perla dell’Africa” ha un'estensione simile a quella della Svizzera ma è ubicato nel crocevia tra il Corno d’Africa, l’Africa Orientale e l’Africa Centrale. In questo crocevia vari paesi sono in situazione di guerra civile o di instabilità permanente: Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Somalia, Burundi.

Questo spinge migliaia di persone ad immigrare in Uganda come profughi per fuggire dalle violenze o come migranti economici per trovare una vita migliore. L’Uganda ospita profughi provenienti dal Congo, dal Sud Sudan e dal Burundi. È meta privilegiata di migranti economici dalla Somalia dal Centrafrica, Eritrea, Etiopia ed accoglie vari stranieri in cerca di lavoro dei paesi membri della Comunità Economica dell’Africa Orientale (East Africa Comunity). Le migrazioni economiche arrivano a valicare i confini continentali. Forte l’immigrazione verso l’Uganda di indiani, pakistani e cinesi. Negli ultimi dieci anni si registra una nutrita migrazione economica dai paesi europei.

Il primo nodo da sciogliere per il governo ugandese (controllato da ormai trent’anni dal presidente Yoweri Museveni) fu quello dei profughi. Il Revolutionary National Mouvement e il UPDF (forze armate ugandesi) avevano ben chiaro i rischi che le masse di profughi involontariamente comportano per il paese ospitante. I campi profughi (gestiti e allestiti dalle agenzie umanitarie e dalle Nazioni Unite) sono per loro natura un rifugio ideale per movimenti guerriglieri che accedono a parti consistenti degli aiuti umanitari e possono trarre nuovi reclute, spesso con la forza e l’intimidazione. Nel medio lungo periodo i campi profughi diventano fonte di instabilità nazionale in quanto il mondo umanitario tende a cronicizzare la presenza dei profughi per ragioni di bottega che tradotte in parole povere significano la garanzia di ricevere i finanziamenti e quindi la continuazione di appetitosi contratti sia per gli espatriati che per il personale locale.

A questo pericolo il governo ugandese ha reagito con una politica insolita ideata da esperti militari che ha dato risultati inaspettati. I campi profughi nel paese sono temporanei e fungono la funzione di campi di raccolta durante la fase acuta della crisi nel vicino paese. Dopo qualche mese di permanenza in questi campi al profugo si sottopone la possibilità di rimanerci (usufruendo degli aiuti umanitari) o la possibilità di migrare in altre zone del paese con la speranza di integrarsi nella società ospitante. Se sceglie la seconda opzione gli viene rilasciata una carta d’identità con lo statuto di profugo che lo mette al riparo di ogni obbligo di regolarizzazione migratoria (permessi di residenza, di lavoro, etc). La sua permanenza in Uganda diventa di fatto illimitata e dipende dalla sua volontà di ritornare nel paese di origine una volta che questo abbia ritrovato la pace, di rimanere in Uganda o di emigrare in paesi terzi. Il governo incoraggia l’integrazione sociale di questi profughi permettendo loro di accedere ad un lavoro, accogliendo i loro figli nelle scuole pubbliche e rendendoli eleggibili all’assistenza sociale (molto ridotta comunque).

L’unico obbligo che il profugo deve rispettare è quello di non affiliarsi a correnti politiche del suo paese o a correnti politiche esistenti in Uganda. Ovviamente è ampiamente tollerata l’affiliazione con il partito al potere anche se non incoraggiata. Questa gestione dei profughi è stata riconosciuta come la migliore e la più efficace dalle Nazioni Unite. Il profugo da attore passivo diventa una ricchezza per la società ospitante. Lui si inserisce nel tessuto sociale e produttivo, contribuendo all’economia del paese tramite il pagamento delle tasse, dei contributi e l’accesso di beni sia di primo consumo che di lusso. I profughi possono anche comprare casa, limitando però la proprietà dell’immobile a 99 anni.

A questa gestione rivoluzionaria dei profughi si è associata una politica di tolleranza verso gli immigrati anche clandestini. Praticamente con un visto turistico di soli tre mesi un migrante economico può rimanere in Uganda a vita accedendo al mondo del lavoro, inviando i propri figli presso scuole pubbliche e private, accedendo alla sanità. Ovviamente se non regolarizza la sua situazione si pone in una situazione debole (in quanto irregolare) e soggetto alla spada di Damocle della deportazione. Una deportazione che scatta solo se questo “clandestino” diventa un attivista politico a favore dell’opposizione o fonda cellule e sezioni di partiti del suo paese originario. La deportazione scatta anche in caso che il “clandestino” entri in contrasto con “pezzi grossi” (solitamente alti ufficiali dell’esercito) in un qualche affare a loro sfavore o se tenta di fare una concorrenza che compromette gli introiti delle varie società di comodo gestite dall’esercito attraverso un sistema di presta nomi simile a quello utilizzato dall’esercito egiziano.

Qualora rispetti le regole il clandestino è tranquillo. Sono possibili anche le regolarizzazioni del suo statuto che però comportano costi aggiuntivi per i “regalini” alle autorità di immigrazione. Questi regalini variano dalla posizione economica dell'irregolare. Se è un povero cristo qualche decina di dollari risolvono ogni problema. Se ha un'attività avviata e delle proprietà le decine diventano ovviamente migliaia. Sui clandestini è sorto un mercato dei visti ampiamente tollerato dal governo solo nel caso che coinvolga le classi migranti povere o piccole borghesi.

Anche a distanza di un anno o due anni senza visto si può accedere alla regolarizzazione ottenendo un visto turistico o un permesso di lavoro con data retrodatata o attuale (in questo caso si figura entrato poche settimane prima da frontiere del Congo o del Sud Sudan). Il costo varia dai 50 ai 200 dollari. Questa “regolarizzazione” implica ovviamente la corruzione statale ma è tollerata dal governo in quanto funzionale. Evita sanatorie e non obbliga lo stato a impegnare risorse finanziarie consistenti nella polizia e servizi segreti per l’individuazione del clandestino e la sua deportazione. Di questo sistema godono anche molti migranti economici occidentali dediti a piccole attività economiche.

Il governo pone una grande attenzione a come vengono dipinti emigrati, stranieri e clandestini dai media nazionali. In Uganda il termine clandestino praticamente non esiste. Non si leggerà mai sui giornali di clandestini o irregolari nè i telegiornali riporteranno notizie simili. Tra il 2012 e il 2013 si sono verificati una serie di gravi abusi sessuali a danno di dipendenti da parte di commercianti e imprenditori pachistani più o meno regolari nel paese. I media all’epoca lanciavano titoli che colpevolizzavano la comunità pachistana. A titolo di esempio: “Pachistano violenta la sua domestica” “La gang dei pachistani colpisce ancora. Violentata una giovane...” Il ministero della Comunicazione intervenne in modo discreto ma efficace chiarendo a tutti i media che tali approcci giornalistici non potevano essere tollerati in quanto il rischio di creare razzismo e odio razziale era altissimo.

Dal “richiamo” i media ugandesi evitano di evidenziare la nazionalità nei titoli di cronaca nera e incentrano l’articolo sul crimine commesso con un accenno alla nazionalità del colpevole quasi causale. Un ultimo episodio di violenza sessuale, reso noto lo scorso luglio, riguardò un imprenditore pachistano che costringeva le sue dipendenti a rapporti sessuali con sodomia se queste volevano mantenere il posto di lavoro. Arrestato dopo la denuncia di qualche vittima i media descrissero l’odioso crimine informando che un imprenditore di origini asiatiche lo aveva commesso. Nel mondo giornalistico queste non sono sfumature di poco conto. Permettono di evitare dei casi di razzismo che danneggino una determinata categoria sociale o un gruppo etnico.

L’episodio più significante di come il governo va cauto nel gestire la problematica degli immigrati e dei “clandestini” è successo nel 2013 quando la polizia ugandese arrestò 2.832 clandestini con permesso di soggiorno scaduto da oltre 6 anni. Tra loro 124 europei di cui due italiani. Il resto erano pachistani, indiani e africani. La polizia vietò ai media di riportare la notizia di questa mega retata. Nessun titolo a riguardo comparse sui giornali. Nessuna campagna xenofobica fu intrapresa. Nessun'espulsione forzata attuata. Ai clandestini che avevano un lavoro (anche nel settore informale del piccolo business) fu data la possibilità di regolarizzare la loro posizione nel paese e la loro posizione fiscale.

Chi non possedeva chiara fonte di sostegno e non era registrato come profugo o chi si dimostrava reclutante alla regolarizzazione proposta scattò l’espulsione. Centinaia di clandestini furono portati alla più vicina frontiera e fatti uscire senza drammi o uso della forza. I loro nomi non furono però soggetto a segnalazioni nè sul loro passaporto fu posto il timbro “persona non grata”. Queste “dimenticanze” permise a molti di loro di rientrare dopo qualche mese con un regolare visto turistico di tre mesi, ritornando così a vivere in Uganda. A conoscenza dei dettagli chiesi ad un mio amico, ufficiale della polizia di spiegarmi l’imposto silenzio ai media e questo atteggiamento “leggero” adottato contro un così alto numero di clandestini.

Ecco le sue risposte. “La maggioranza di loro sono dei morti di fame. Perché accanirsi contro di loro? Finché non fanno crimini o non appoggiano partiti non danno fastidio e magari trovano un lavoro contribuendo alla società. Abbiamo impedito ai media di pubblicare la notizia per evitare il sorgere di odio razziale. Nella regione ci ricordiamo ancora bene il ruolo giocato dai media nel ’94 durante i cento giorni ruandesi...”.

La legge dei Media prevede sanzioni durissime contro ogni tentativo di promuovere odio razziale o etnico. Questa legge viene applicata anche su Facebook e altri social network. Sono considerati promozione di odio razziale anche le semplici barzellette su razze o cittadini provenienti da diverse province del paese e il divulgare stereotipi razziali anche i più innocenti tipo: “i cinesi rubano il lavoro agli ugandesi” “le nigeriane sono tutte prostitute”, “gli italiani sono sempre in cerca di donne” e via dicendo. Se il media o il singolo cittadino è recidivo nel promuovere odio razziale o etnico si procede alla chiusura della testata e a provvedimenti disciplinari che possono variare dai 6 mesi ai due anni di reclusione. Dopo il turbolento periodo della legge anti gay (ora annullata dalla Corte Costituzionale) il governo mal tollera il propagare di idee omofobiche pur non tollerando la promozione di idee a favore della omosessualità. Semplicemente l’argomento è diventato tabù.

La anomala gestione dei profughi e dei immigrati (clandestini compresi) non è dovuta a particolari ideologie progressiste del National Revolutionary Mouvement o al rispetto dei diritti umani da parte del presidente Museveni. È un modo intelligente e realistico di evitare destabilizzazioni sociali, criminalità e tensioni che parte da un semplice constato: non si può trasformare l’Uganda in una fortezza isolata. A titolo di esempio, dopo l’attentato terroristico di matrice islamica estremistica compiuto a Kampala nel luglio del 2010 alla finale dei mondiali di calcio, polizia, esercito e servizi segreti hanno intensificato le azioni anti terrorismo senza colpevolizzare la consistente comunità somala o quella musulmana.

Nonostante che l’esercito ugandese sia il principale attore militare della disfatta del gruppo terroristico Al-Shabaab in Somalia, dal 2010 non si sono verificati attentati nel paese. Le eventuali cellule terroristiche sono rapidamente represse dall'efficace polizia segreta onnipresente nel paese. Si colpisce duramente (e forse in modo poco ortodosso) il terrorista senza colpire la comunità a cui appartiene. Ovviamente la maggioranza dei somali e dei musulmani sono sotto controllo. Un controllo però molto discreto e rispettoso delle libertà civili ed individuali.

La politica verso lo straniero è in realtà un atteggiamento pratico e realistico adottato dal governo, ben conscio che parte delle crisi regionali sono causate dalla sua politica imperialistica e dalla continua rapina delle risorse naturali appartenenti ai paesi vicini più deboli. Una sorte di Stati Uniti nel cuore dell’Africa ma con una sostanziale differenza. Lungo i confini con il Messico ci sono le barriere di filo spinato. Lungo i confini ugandesi boschi, campi di manioca e mucche al pascolo...

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