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Fulvio Beltrami
Originario del Nord Italia, sposato con un'africana, da dieci anni vivo in Africa, prima a Nairobi ora a Kampala. Ho lavorato nell’ambito degli aiuti umanitari in vari paesi dell'Africa e dell'Asia.
Da qualche anno ho deciso di condividere la mia conoscenza della Regione dei Grandi Laghi (Uganda, Rwanda, Kenya, Tanzania, Burundi, ed Est del Congo RDC) scrivendo articoli sulla regione pubblicati in vari siti web di informazione, come Dillinger, FaiNotizia, African Voices. Dal 2007 ho iniziato la mia carriera professionale come reporter per l’Africa Orientale e Occidentale per L’Indro.
Le fonti delle notizie sono accuratamente scelte tra i mass media regionali, fonti dirette e testimonianze. Un'accurata ricerca dei contesti storici, culturali, sociali e politici è alla base di ogni articolo.
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Ago 17
di Fulvio Beltrami
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La Corte Suprema, dopo una lungo iter giudiziario, ha ordinato al governo olandese di ricompensare 300 vittime bosniache musulmane massacrate dalle milizie serbo-bosniache in Srebrenica nel luglio 1995. La sentenza è basata su prove inconfutabili esibite durante questo storico processo che dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che il contingente olandese della missione di pace Onu in Jugoslavia (UNPROFOR) avevano clamorosamente deciso di non difendere i civili di Srebrenica, vittime della pulizia etnica che rientra nei crimini di genocidio. La sentenza della Corte Suprema olandese può essere ora utilizzata come precedente per altri casi di negligenza e crimini contro l’umanità commessi dai caschi blu in altre missioni di pace da Haiti all’Africa. La sentenza rende giustizia agli 8.000 civili bosniaci massacrati a Srebrenica a causa della mancata volontà dei caschi blu di proteggerli dalle milizie serbo-bosniache.
Le responsabilità Onu a Srebrenica erano già state denunciate nel 2002 senza trovare un eco giudiziario. A denunciarle fu Fiona Terry, direttrice per le ricerche di Medici Senza Frontiere a Parigi nel suo libro indagine “Condemned to repeat? The paradox of humanitarian action” (Condannati a ripetere? Il paradosso dell’azione umanitaria) edizioni Cornell Paperbacks. La pulizia etnica contro i civili bosniaci musulmani fu possibile a causa del fallimento dei caschi blu Onu di proteggere la popolazione rifugiatasi all’interno delle “Safe Areas” (aree protette) Onu. Di seguito si riporta la testimonianza di Fiona Terry.
“Le aree protette Onu furono create durante la guerra civile in Bosnia (1992 – 1995) per proteggere i civili musulmani dagli attacchi dei serbi. Purtroppo furono immediatamente trasformate in base militari strategiche in territorio nemico dal governo musulmano bosniaco. Le Nazioni Unite stabilirono sei aree protette tra l’aprile e il maggio 1993 nelle città di: Srebrenica, Sarajevo, Tuzla, Zepa, Gorazde e Bihac. La creazione di questi corridoi umanitari furono causate dall’assedio di Srebrenica delle forze serbo-bosniache nei primi mesi del 1993. Assedio che interruppe ogni aiuto umanitario alla città provocando la morte di migliaia di civili. Le aree protette erano collocate in pieno territorio serbo-bosniaco e circondate da postazioni di artiglieria piazzate da UNPROFOR in protezione dei civili, secondo quanto stabilito dalla risoluzione n. 836 del 4 giugno 1993 del Consiglio di Sicurezza che autorizzava UNPROFOR all’uso della forza per difendere i civili o per impedire offensive militari nell’area.
La risoluzione autorizzava gli stati membri Onu ad intervenire militarmente nella guerra civile bosniaca a titolo personale o attraverso organizzazioni regionali. La risoluzione incaricava inoltre i caschi blu di promuovere il ritiro di tutti gli eserciti e milizie dalla zona. In considerazione della mancata volontà del governo bosniaco di ritirare le sue truppe e dell’impossibilità di costringere le milizie serbo-croate ad una ritirata unilaterale, le Nazioni Unite decisero di trasformare queste aree protette in aree demilitarizzate. In realtà UNPROFOR non aveva la capacità di far rispettare tregue né di proteggere i civili. Su 34.000 soldati considerati necessari per il mantenimento della pace in Bosnia ne arrivarono circa 7.600. Il governo bosniaco iniziò a utilizzare questi corridoi umanitari come basi militari per lanciare delle offensive contro le postazioni serbo-bosniache come quella di Bihac nel novembre 1994. Suan Woodward afferma che queste offensive erano scatenate con l’obiettivo di provocare l’artiglieria serba. L’eccidio di civili avrebbe facilitato la richiesta bosniaca rivolta alla Nato di intervenire in loro soccorso. Le offensive e le successive rappresaglie serbe servivano anche a consolidare la propaganda bosniaca che trasformava i musulmani in uniche vittime della guerra civile.
Ci sono vari rapporti che dimostrano la mancata volontà del governo bosniaco di difendere la città di Gorazde e di permettere il collegato massacro, per incoraggiare l’intervento Nato. Per le milizie serbo-bosniache questi corridoi umanitari all’interno dei loro territori erano zone militari strategiche per l’esercito bosniaco musulmano. Nel luglio 1995 le milizie serbe attaccarono due di queste aree protette: Srebrenica e Zepa causando la morte di migliaia di civili. Circa 20.000 bosniaci musulmani furono uccisi nella regione durante il 1995. Secondo Woodward la creazione di aree protette, motivata da intenti umanitari, rese possibile l’escalation del conflitto e la morte di migliaia di civili. La evidente incapacità Onu di far rispettare il principio di demilitarizzazione delle aree protette offrirono alle forze serbe il pretesto di attaccarle con l’obiettivo di riconquistare i territori perduti e di costringere i caschi blu alla neutralità delle aree protette. Adams Roberts fa notare che non vi erano alcuna possibilità di assicurare la neutralità di questi corridoi umanitari in quanto il governo bosniaco e i civili musulmani non erano favorevoli ad affidare ai caschi blu Onu il compito di proteggerli”.
Diverse aree protette dalle Nazioni Unite furono create all’inizio degli anni Novanta per proteggere i civili e favorire l’assistenza umanitaria. La prima di queste aree fu creata nel 1991 nel nord dell'Iraq e nel nord dello Sri Lanka. Nel 1993 un corridoio umanitario fu creato da UNPROFOR in Bosnia-Erzegovina. Nel 1994 un corridoio umanitario fu creato nel sud del Rwanda dall’esercito francese sotto mandato Onu. Diverse aree protette temporanee furono negoziate con il governo sudanese e la ribellione SPLA durante la lunga guerra civile in Sudan. Nonostante che la legge internazionale esige che questi corridoi umanitari siano sicuri e ad esclusivo uso dei civili o dei soldati demilitarizzati, queste aree sono state immediatamente trasformate dalle Nazioni Unite in basi militari a favore di una delle parti belligeranti secondo le convenienze.
Le aree protette, come i campi profughi gestiti da Unhcr sono servite per proteggere eserciti e gruppi armati. In Iraq facilitarono le milizie curde. In Sri Lanka l’esercito governativo che lanciò una serie di offensive contro la ribellione Tamil. In Bosnia-Erzegovina l’esercito e le milizie bosniache musulmane, in Rwanda l’esercito genocidario durante la sua ritirata nello Zaire (attuale Repubblica Democratica del Congo). In Sud Sudan i ribelli sudisti del SPLA. La mancata demilitarizzazione e l’utilizzazione militare delle aree protette da parte dei caschi blu Onu hanno aumentato la diffidenza delle parti belligeranti che ora si oppongono alla creazione di corridoi umanitari come stiamo assistendo nei conflitti in Siria e Ucraina.
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