Il blog intende mettere in evidenza i risvolti filosofici delle tecnologie attuali più rivoluzionarie e mostrare come molte di queste tecnologie siano state anticipate dal pensiero dei filosofi antichi, in modo da riavvicinare il “classico” allo “scientifico”, il “tecnico” all’“umanistico”, termini che la cultura contemporanea considera radicalmente opposti, ma che parecchi secoli fa costituivano le due metà di una stessa mela.
Mario Abbati
Mario Abbati è nato a Roma nel 1966. Laureato in Ingegneria Elettronica e poi in Filosofia, ha trovato nella scrittura una dimensione parallela a quella di professionista nelle tecnologie dell’informazione.
Ha pubblicato i saggi “Ipercosmo, la rivoluzione interattiva, dai multimedia alla realtà virtuale” e “Manifesto del movimento reticolare”; la raccolta di racconti “La donna che ballava il tango in senso orario”; il romanzo, “Il paradiso delle bambole”.
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Apr 22
di Mario Abbati
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Ho un amico – di cui non posso rivelare il nome per motivi di privacy – che compone poesie. Fin qui nulla di scandaloso. Questo amico ha deciso di partecipare a un premio letterario – di cui non posso rivelare il nome perché il mio amico passerebbe dei guai – ha impacchettato le poesie in una silloge e si è iscritto. Fatti di ordinaria normalità. Dopo un paio di mesi, al termine della fase di valutazione, la giuria ha comunicato al mio amico che il vincitore del premio era lui. Capita, non tanto spesso, ma nemmeno così raramente da suscitare una reazione di sorpresa smodata.
Ma allora dov’è la novità?
È che lui per produrre i suoi componimenti poetici non usa l’intuizione, la passione, il sentimento, cioè le categorie tipiche dell’artista romantico, no, lui usa i traduttori automatici di Google.
Pesca da internet un testo di partenza, che ne so, il frammento di un’intervista a un calciatore, l’estratto della dichiarazione di un politico o l’intercettazione telefonica di una velina, insomma, quanto di più distante da una poesia si possa mai concepire; poi si collega a Google Traduttore (per chi volesse provare: http://translate.google.it) e inizia a convertire il testo da una lingua all’altra: italiano-inglese, inglese-tedesco, tedesco-spagnolo, spagnolo-cinese, cinese-swahili, eccetera. Si può rimbalzare a piacere fra i cinque continenti del planisfero esplorando l’universo dei linguaggi, l’importante è che l’ultimo passaggio riporti il testo all’italiano. La catena di trasformazioni linguistiche non solo altera la struttura sintattica del testo stravolgendo preposizioni e periodi ma provoca anche uno slittamento dei significati, col risultato che il testo finale può perdere le connessioni con quello di origine.
La scoperta rivoluzionaria, per non dire eretica, del mio amico è che con questo procedimento automatico è possibile generare poesia. Lui l’ha fatto. Ignoro se con intenzioni costruttive o provocatorie, non me l’ha mai confessato. Comunque ha dimostrato che la gelida razionalità che alimenta la tecnologia può coesistere con l’improvvisazione bollente dell’arte poetica, che Leopardi e l’intelligenza artificiale non necessariamente stanno agli antipodi, che l’emisfero destro e quello sinistro del cervello possono convivere in pacifica armonia. Che in sostanza coi traduttori automatici di Google si possono vincere i premi letterari di poesia.
PS. Taccio sul testo da cui sono partito, ma applicando il metodo del mio amico dopo 20 traduzioni poliglotte è uscita fuori questa poesia dal sapore zen, giudicate voi:
“Oh amica mia, c'è di tre colori la pasta lì,
mangiano per lo più in casa.
Credo che una volta volevo briffare, ti giuro,
è necessario fare del male,
e voglio essere vista in tutta la generale disperazione.
Questi denti sono di diversi tipi di persone.
L’italiano e la storia del cane che viene dai bassifondi.
Che cosa devo fare in Sudamerica? Io sono di qui.
Non dovrebbero trovarsi sul tavolo, non siate timidi,
sbattete il bastone e fregatevene.
E si allontanò.”
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