Il blog intende mettere in evidenza i risvolti filosofici delle tecnologie attuali più rivoluzionarie e mostrare come molte di queste tecnologie siano state anticipate dal pensiero dei filosofi antichi, in modo da riavvicinare il “classico” allo “scientifico”, il “tecnico” all’“umanistico”, termini che la cultura contemporanea considera radicalmente opposti, ma che parecchi secoli fa costituivano le due metà di una stessa mela.
Mario Abbati
Mario Abbati è nato a Roma nel 1966. Laureato in Ingegneria Elettronica e poi in Filosofia, ha trovato nella scrittura una dimensione parallela a quella di professionista nelle tecnologie dell’informazione.
Ha pubblicato i saggi “Ipercosmo, la rivoluzione interattiva, dai multimedia alla realtà virtuale” e “Manifesto del movimento reticolare”; la raccolta di racconti “La donna che ballava il tango in senso orario”; il romanzo, “Il paradiso delle bambole”.
TAGS
Apr 12
di Mario Abbati
Tweet | Condividi... |
Ognuno di noi vive immerso in uno spazio-tempo. Se – come sosteneva uno dei fuoriclasse della filosofia moderna, Immanuel Kant – il nostro cervello non avesse la capacità di percepire gli oggetti all’interno di una scatola che chiamiamo “spazio” e disporli secondo un prima e un dopo che chiamiamo “tempo”, tutta la nostra esperienza sensibile cadrebbe giù come un castello di sabbia durante una mareggiata.
Esistono diverse tipologie di spazio-tempo. Quando ci muoviamo negli ambienti della vita quotidiana, in un bosco, a scuola, in ufficio, cioè quando la combinazione di mente e sensi non è alterata da filtri o amplificatori, possiamo parlare di spazio-tempo “naturale”. Viceversa, quando le nostre capacità native vengono modificate attraverso protesi e supporti, è più corretto parlare di spazio-tempo “artificiale”.
Chi ci permette di passare da uno spazio-tempo naturale a uno artificiale è la tecnologia. Da sempre l’uomo si è ingegnato per costruire oggetti o sistemi di oggetti che gli consentissero di modificare la propria sensibilità in modo da superare ostacoli e limitazioni: occhiali e lenti correggono le anomalie della vista; gli apparecchi acustici ampliano le sensazioni uditive; i sintetizzatori vocali fanno parlare chi ha problemi di espressione.
Di fronte a questa situazione ci aspettiamo che uno spazio-tempo artificiale sia generalmente più stimolante di quello naturale, cioè che la tecnologia ci aiuti ad allargare l’ambito della nostra sensibilità per consentirci esperienze che altrimenti non sarebbero possibili. Invece no, se si analizzano le tendenze dominanti del cosiddetto progresso, l’impressione è che le alternative di spazio-tempo artificiale che ci vengono proposte siano sempre più ristrette, che cioè la tecnologia si configuri come una camicia di forza piuttosto che come amplificatore di esperienze.
Da una parte i componenti elettronici diventano sempre più piccoli, l’hardware che cinquant’anni fa occupava armadi interi ora può essere palleggiato fra le dita di una mano; dall’altra, i tempi di consumo della tecnologia diventano sempre più bassi, per vendere il maggior numero possibile di prodotti commerciali si richiede all’utilizzatore di svolgere tante attività ciascuna in un tempo brevissimo.
Lo strumento di comunicazione di massa che più testimonia la tendenza al ribasso è Twitter. Anche Twitter è una forma di spazio-tempo artificiale perché ha bisogno di uno spazio (dove scrivere) e di un tempo (per mettere in sequenza i caratteri), ma queste componenti sono eccezionalmente tascabili perché un testo non può essere più lungo di 140 caratteri, limite che comprime il linguaggio in un frasario scialbo fatto di slogan, simil-proverbi e battute da bar, non a caso i primi a gettarsi su Twitter sono stati politici e calciatori.
Ma senza scomodare Twitter, basta entrare nel vagone di una metropolitana o camminare su una strada di una città qualsiasi per renderci conto che lo spazio-tempo naturale è già stato sostituito da smart-phone e tablet. Invece di cavalcare gli anni luce tra una galassia e l’altra, ci stiamo facendo intrappolare dentro specchi di Biancaneve sempre più piccini, già si parla di romanzi scritti apposta per i cellulari, magari con righe di massimo dieci parole, parole di massimo cinque lettere.
Insomma, a questo punto la domanda è d’obbligo: perché chi è muto dovrebbe ricostruirsi la voce, se poi sarà obbligato a pronunciare frasi non più lunghe di 140 caratteri?
© Riproduzione riservata
1345 visualizzazioni