di Giacomo Maria Prati
Il Tempio della Parola
Tutto il mondo non vale il giorno in cui è stato dato ad Israele il Cantico dei cantici (Rabbi Akiva)
La semiosi ermetica si è manifestata a due livelli: l’interpretazione del mondo come libro e interpretazione dei libri come mondi (Umberto Eco)
Il Cantico dei cantici è il testo antico più complesso, affascinante ed enigmatico (ancor più dell’Apocalisse), più avventuroso di qualsiasi romanzo, più ricco di qualsiasi poesia! Sembra voler assommare un gran numero di superlativi/maggiorativi, come già il suo titolo straordinariamente indica!
Per migliaia di anni teologi, critici, scrittori, intellettuali, devoti, appassionati si sono spaccati la mente per cercare di comprendere questo poema criptico, sfuggente, che appartiene ai libri sapienziali della Bibbia ma che rappresenta una realtà unica, differente non solo da qualsiasi altro libro della Bibbia ma senza uguali in tutta la letteratura di ogni tempo! Non siamo in grado neppure di concludere con certezza a quale genere di letteratura appartenga, né se possa parlarsi di “letteratura”. In certi passi non è neppure chiaro chi stia parlando o in che contesto ci si trovi né a chi ci si rivolga! Non esiste infatti un soggetto narrante né un quadro unitario di riferimento, né abbiamo certezze neppure a livello strutturale mentre la sua stessa ripartizione in capitoli è una convenzione postuma, quasi inutile.
Il mio approccio si è caratterizzato, in uno spirito che vorrebbe avere “l’ambizione dell’umiltà”, per una piena adesione a certi dati letterali, da ri-valorizzare e che fra poco esporrò, e in piena sintonia con un’antica tradizione rabbinica che lo avvicina alla spiritualità del Tempio di Gerusalemme. Il titolo va profondamente meditato e appare già quasi inaudito per Israele in quanto si pone con certezza quale testo, inno, “cantico” che supera qualsiasi altro, e presenta un “nome non nome” che sembra la parafrasi dell’altro luogo inaudito e quasi innominabile: il “Santo dei Santi” del Tempio. Questo dato va valorizzato insieme all’altro aspetto letterale dato dalla ricorrenza espressa per sei volte del nome del re Salomone, l’edificatore del Tempio, alluso anche nel nome della Sulammita e nell’evocazione finale della pace da parte dell’Amata. Altro dato molto prezioso a rafforzo di questo approccio è quel passo in cui l’Amata viene descritta: bella e leggiadra come Gerusalemme.
Il linguaggio del Cantico è un linguaggio figurato, figurativo, ipermetaforico e spesso anche un “metalinguaggio”, una lingua metamorfica in quanto accade che si sdoppi semanticamente (come nell’ambiguità fra la figura del re e quella dell’Amato, spesso sovrapposte), che utilizzi immagini simbolico-metaforiche già date costruendo con esse nuovi immaginari e combinazioni narrative e che lasci aperti più livelli di lettura tutti includibili in un'allusività diffusa. Come può esistere un uso metaforico di una metafora? Su cosa reggere questo Tempio di linguaggi figurativi, di rappresentatività indiretta?
Siamo in presenza di un testo strutturalmente iniziatico, cioè di un testo che va accettato totalmente nel suo senso sfuggente per poter prender parte alla sua nuova unica lingua. È il Cantico che deve educarci alla sua comprensione. La lingua del corpo e dell’amore, così potente in questo testo, non deve farci dimenticare che si tratta sempre di un linguaggio figurato, mediato, simbolico: una lingua che parla sempre anche di altro, in modo metodico, non per intenzioni di mera enfasi poeticizzante. Quella che ignoriamo è appunto la “chiave dei registri”, cioè il codice ritmico che ci dica su quale livello siamo in quel passo, se quell’immagine sia allegorica o allusiva, e in che ambito operi quel dato rinvio. Ritengo che uno dei pochissimi interpreti che sia riuscito grazie alla sua umiltà e saggezza a inquadrare correttamente il Cantico sia don Aldo Castagnoli, un quasi sconosciuto esegeta che ha saputo affrontare finalmente con serietà la pregiudiziale questione del metodo ermeneutico, spesso elusa, partendo giustamente dal dato ineludibile dell’essere il Cantico Sacra Scrittura (di tipo sapienziale) e qualificandolo quale “mandala iniziatico”, quale percorso di ascesi riservato ai componenti di una confraternita (forse quella dei Recabiti) dedicata alla sapienza divina e ai misteri d’amore.
L’unica caduta metodologica del Castagnoli, paradossalmente simile alle “distrazioni ermeneutiche” del tanto da lui criticato Ravasi, sta nel parlare di “pastorello” per la figura dell’Amato, cioè nel cadere nella tentazione di una ricostruzione “sociologica” che oggettivamente appare infondabile, arbitraria, ideologica. L’unico tessuto sociale ricostruibile in modo coerente dal testo è quello proprio di una ritualità tipica del Tempio e di chi vi serviva. Paradossalmente è proprio l’antica tradizione cattolica del servizio della Madonna al Tempio, a cui sono state dedicate numerose stupende opere d’arte (fra cui una del Carpaccio, ora in Pinacoteca di Brera), a ricordarci l’importanza concreta di questo fenomeno socio-religioso, che coinvolgeva una fase della vita femminile e implicava una selezione iniziale e finale, topos, quello selettivo, così centrale nel nostro poema.
Questo tema sfocia nell’altro paradigma, quello dello Sposalizio della Vergine con Giuseppe. Ricordiamo il celebre quadro di Raffaello presente a Brera. Curioso che nessuno abbia accostato queste antiche tradizioni di tipo rituale/templare/nuziale alla spiritualità del Cantico dei cantici. Eppure è l’unico modo per capirci qualcosa. Castagnoli esce dallo scenario ermeneutico essenziale quando confonde l’immaginario pastorale con il tema e il contesto pastorale. La lingua del Cantico dei cantici utilizza varie immagini pastorali ma non è un inno o un poema pastorale, così come esce dal testo Ravasi quando parla di un racconto amoroso svolto per immagini teologiche mentre si tratta al contrario di un racconto per immagini amorose di un tema invece sacrale, sapienziale, divino, che assorbe, abbraccia e oltrepassa una semplice cerimonialità sponsale quale rito sociale.
Da parte mia per prima cosa ho cercato di riassumere tutti i possibili riferimenti e allusioni testuali all’immaginario e alla vita del Tempio. Il risultato è tale che, per ora, i “mondi del Tempio” sono gli unici che riescono, insieme al linguaggio amoroso, a “tenere in unità” e coerenza discorsiva questo meraviglioso testo spirituale. Ripercorriamone le principali costellazioni semantiche. Il primo “arcipelago templare” lo troviamo nel tema del vino (allusione al sangue, al sacrificio e alla benedizione), dei profumi e del Nome, essenziali per le ritualità sacrificali del Tempio. Anche il gioco di parole fra nome (sem) e olio (semen) (olio effuso è il tuo nome… correremo verso il profumo dei tuoi unguenti) rinvia al Tempio consacrato da Salomone al Nome di Dio e al profumo quale immagine del sacrificio a Dio.
I profumi dominano il Cantico nella citazione di molteplici essenze (mirra, croco, nardo, canna, cinnamono, incenso) e questo aspetto sembra rinviare all’offerta mattutina e serale compiuta sull’altare dei profumi e la stessa frequente ricorrenza del nome “Libano”, rinvia simbolicamente all’incenso (quello rituale era composto da un mix di numerose essenze) il cui profumo emana dalle stesse vesti dell’Amata, in quanto simbolicamente il termine “Libano” indica l’incenso.
L’altro topos testuale lo troviamo nel tema del velo, delle tende e dei padiglioni dell’Amata e dei pastori (nera sono ma di bella forma…) dove la stessa Amata sembra assimilarsi a un tempio mobile sull’archetipo della Tenda della Testimonianza, e la cui pelle mutata, scurita (decoloravit) sembra alludere all’assimilazione dell’anima al Sole della Sapienza. La bocca dell’Amata è paragonata a una benda scarlatta (vitta coccinea) e il sacerdote vestiva con una benda sulla tunica mentre una cordicella purpurea era connessa alle cortine che dividevano il Santo dal Santo dei Santi. Le visioni contemplative nelle quali i due protagonisti si lodano a vicenda abbondano di metafore architettoniche che bene si adattano alle decorazioni del Tempio e ai suoi materiali: il cedro e il cipresso della stanza nuziale e, a livello di decorazioni, similmente per quanto riguarda: palme, melograne, leoni, nocciole (nei lucernieri della Menorah), gigli; come pure il tema del letto/lettiga/baldacchino e divano del re, di Salomone e dell’Amata, va considerato quale figura del Tempio quale luogo di riposo della Shekinà.
Un'altra coagulazione semantica templare è evidenziabile nell’immagine della roccia e del muro divisorio, cioè la parete che divideva il settore delle ancelle da quello maschile fra chi serviva nel Tempio, nonché Israele dalle nazioni. La capra selvatica a cui viene assimilato l’Amato è indizio templare per quanto riguarda l’origine animale dello shofàr che annunzia il Sabato, la Pasqua, e il Giubileo, nonché le offerte del mattino e della sera. Il monte degli aromi potrebbe essere lo stesso Monte Sion e il tema del latte e del miele rinvia al Tempio quale Terra promessa della fede e del culto. L’unicità dell’Amata rispetto alle 60 regine e alle 80 “concubine”, nel senso che riposano dove riposa la gloria di Dio (che ho tradotto: veglianti in quanto il numero 80 indica phe, cioè: “soffio”, cioè preghiera) indica l’unicità sacrale di Gerusalemme rispetto alle altre città di Israele e a quelle sottomesse. Anche il topos delle immagini acquee (le piscine di Hesebon, sorgente di giardini, pozzo di acque vive) può trovare un riscontro templare nel Mare di rame del Tempio, nelle abluzioni sacerdotali e nel lavaggio delle vittime sacrificali.
In questo approccio che prediligo per cui il Cantico si fonda sulla celebrazione della Sapienza divina e sull’esaltazione di riti-cerimonie proprie di chi serviva Dio nel Tempio può trovare adeguata spiegazione anche uno dei passi più enigmatici del poema: il “notturno” in cui giunge l’Amato ma l’Amata manca l’incontro. Si può trattare di un “passaggio” di tipo misticamente pasquale oppure di un turno di servizio notturno nel Tempio per il quale la novizia non si dimostra all’altezza e per tale motivo “perde” il mantello, cioè viene disonorata nella sua dignità.
Il tema invece del “sonno che non deve essere disturbato” ricorda la tradizione antica dell’incubatio e il tema biblico del sogno e della voce notturna che viene da Dio in Samuele. Uno dei passi più difficili da capire è il paragone delle chiome del capo dell’Amata alla porpora del re vinta dalle scanalature. Anche qui potrebbe risultare efficace la spiegazione templare dello scorrere del sangue sacrificale (la porpora) nelle scanalature dell’altare del sacrificio la cui funzione è proprio quella di “vincere” (convincere) la benevolenza di Dio.
Il passo che rappresenta la “prova del nove” della “resistenza ermeneutica” del Cantico è l’ultima sezione in cui viene presentato all’improvviso un nuovo personaggio, la “sorella”, senza che tutto il testo precedente possa in alcun modo aiutarne la comprensione. Tentare di leggere questa figura in senso letterale e in un contesto psicosociale, come ha tentato di fare Gianfranco Ravasi, il più grande compendiatore cristiano del Cantico dopo il seicentesco Cornelio a Lapide, mi sembra frustrante e porta al risultato di configurare un corpo estraneo dentro un poema figurato. Ravasi per un “eccesso di cultura” ritengo si “perda” nei dettagli, cioè accoglie numerose diverse letture di tutti i particolari del testo ma abdica alle scelte fondamentali per la sua comprensione complessiva, sminuzzandolo in innumerevoli frammenti autoreferenziali. Così facendo si riduce la profondità e la singolarità del testo a un esercizio di “retorica sull’amore”, dispendiosa e dispersiva come ogni, pur sublime, retorica. La sua opera esegetica, comunque mirabile, rischia di appesantire il testo di un’armatura plumbea di corredi critici che smarriscono il senso complessivo dell’andamento narrativo.
Il mio approccio, più socratico, ricerca al contrario in primo luogo ogni traccia di sviluppo semantico tramite una disamina interna comparativa sistematica e progressiva, tendente alla ricostruzione di un tessuto connettivo. Proviamo ad esempio a ridurre l’interpretabilità della “sorella” dei due amanti a tre essenziali paradigmi: 1) la sorella quale immagine della Sinagoga rispetto al Tempio di Gerusalemme (i seni sarebbero le colonne del Tempio e le tavole della Legge, alluse anche dalle tavole di cedro), 2) la “sorella” quale figura dei futuri popoli che riconosceranno Dio tramite il culto del suo Nome nel Tempio di Gerusalemme, 3) la “sorella” quale novizia nei riti templari-nuziali riservati a chi serve nel Tempio, di giorno e di notte, al mattino e alla sera, per cui questo spiegherebbe la complicità e l’unità dei due Amanti rispetto alla “sorella” da iniziare e il tema nuziale-amoroso sarebbe un classico esempio del tipico linguaggio figurato di Israele (Isaia, Osea) dove il matrimonio è immagine importante dell’alleanza fra Dio ed Israele. Non a caso alla fine del poema il tema ricorrente della vigna/vigne, con cui inizia il poema, giunge al suo naturale coronamento spirituale nel rispecchiamento armonioso e unitario fra la Vigna di Salomone e la Vigna dell’Amata.
È difficile anche per gli esperti restare ludici e distaccati di fronte alla ricchezza traboccante della narrazione del Cantico salomonico, e si avverte il rischio di arrendersi alla pura bellezza del testo non scommettendo più sulla sua reale comprensibilità, rinunciando a una lettura precisa, complessiva. Quello a cui voglio qui accennare è invece proprio questo, cioè ribadire l’esistenza di numerosi passaggi chiave nel testo tali da aiutarci, se sapremo meditarci e studiarci sopra, nell’inquadramento interpretativo generale del poema e, talvolta, anche nella comprensione particolare di alcune scene.
Il riferimento a Salomone appare assolutamente importante, eppure è stato anch’esso erroneamente emarginato. Il nome di Salomone indica tre dimensioni centrali per la comprensione del Cantico: la Pace, la Sapienza e il Tempio, e quindi, la presenza della gloria di Dio inabitante nel Tempio (Shekinàh). Penso che potrebbe essere un buon sottotitolo del Cantico questa qualificazione: canto figurato della Sapienza e della Gloria di Dio e delle sue forme di manifestazione (viste dall’umano: vie di contemplazione e di presenza di fronte alla Presenza).
Giuseppe Abramo e Nadav Eliahu Crivelli hanno messo in evidenza come il termine “bacio” dell’incipit dell’inno sia reso in modo neutro, potendo applicarsi sia all’uomo che alla donna. Rinvio all’Adamo primigenio? Rinvio alla divinità dell’immagine del bacio che sarà presente anche nella tradizione rabbinica su Mosè e il “bacio di Dio” (Edmond Fleg, Mosè secondo i saggi). Uno dei primi spiragli/chiave che discriminano le scelte ermeneutiche fondamentali è dato dal seguente passaggio: “i suoi seni sono più prosperi del vino”. Quasi sempre viene tradotto: "il tuo amore è migliore del vino", ma penso che così traducendo già si imponga una scelta di lettura riduttiva nel suo generalismo, dando per scontato in modo superficiale che il tema amoroso sia l’unico e lo sia in senso solo umano, letterale. E allora sfugge la ragione della grande ricchezza del linguaggio figurato utilizzato se il tema è solo l’amplesso fra uomo e donna, fatto per nulla misterioso.
Il tema dei seni poi è presente in modo ricorrente nel Cantico, anche in senso dialettico e dialogante con altre immagini complementari: vino/latte/miele. Si tratta di immaginari biblici e scritturali, anche sapienziali. Perché non indagarli e approfondirli? Forse la traduzione “seni” è stata emarginata per cercare di “facilitare” il testo liberandosi a monte dell’imbarazzo di un'immagine femminile ascritta all’Amato. Eppure scritturalmente anche i visceri/ventre femminile vegono ascritti a Dio quale immagine della sua misericordia e tenerezza. Non è corretto spezzare la sequenza del tema dei seni omettendo il suo primo anello. Difficile infatti è sostenere che in questa frase iniziale sia l’Amato a parlare in quanto tutta la prima narrazione, fino al tema della ricerca nel meriggio dell’Amato, è dominata dal racconto dal punto di vista femminile. Lui è fermo, è Lei che si muove.
Non possiamo non valutare comparativamente tutti i passi in cui vengono evocate queste immagini spirituali dei seni, del latte, e del vino e del miele. Il tema biblico, raro ma presente, di una narrazione femminile di certi attributi di Dio continua nell’iconografia cattolica. Citiamo due stupendi esempi: il Cristo incinto nel Pagamento del tributo al Tempio di Ludovico Mazzolino (Christ Church, Università di Oxford), e l’identico Cristo dello stesso autore alla Pinacoteca di Brera, nella sua Resurrezione di Lazzaro, Sala XXII) e il Cristo sofferente, che porge il seno come una donna allattante, fra S. Ambrogio e S. Agostino, opera privata datata 1445-1450 e citata nel catalogo Arte lombarda dai Visconti agli Sforza (pag. 251).
Non c’è altra via di comprensione che comparare le varianze e i ritorni, sia all’interno del Cantico, che negli altri libri biblici, specialmente quelli sapienziali. Ceronetti coglie la giusta aura quando traduce la prima comparsa del termine “fanciulle” con “vergini sacre”, accogliendo con serietà il tema della elezione/selezione, che difficilmente possiamo non avvicinare alla dimensione dell’elezione divina di Israele e della madre del Messia. Proprio per valorizzare questo aspetto ho tradotto “israeliticamente”, ma pure etimologicamente, il latino diligo quale espressione/derivazione di eligo, scelgo. L’amore quale scelta, quale sacra cernita. L’Amato/Amata quali Eletto/Eletta. Il Cantico infatti è testo universale ma ci parla comunque di un Eletto e di un'Eletta e dei loro “compagni/confratelli/consorelle” alludendo in modo abbastanza chiaro alla presenza di una cerchia selezionata di uditorio e di contesto genetico della narrazione.
La “posizione semantica” dell’Amato all’inizio è del tutto centrale, templare. L’Amato è dentro le “sue stanze” ed è l’Amata che anela a entrarvi, come a un'introduzione iniziatica. Il “correre” verso l’Amato sembra riecheggiare la metafora del movimento degli astri, come comparirà anche verso la fine del poema quando l’Amata dice: "Io sono del mio diletto e verso di me è il suo corso". Altro giacimento immaginale importante è dato dal tema della pelle scura. Il latino qui paradossalmente aiuta la comprensione sapienziale in quanto utilizza il verbo decoloravit. Non scurire quindi ma al contrario “scolorire”. A questo spiraglio va giustapposto l’altro segnale della dialettica fra l’aspetto brunito, il meriggio assolato della ricerca dell’Amato, e l’aspetto velato dell’Amata. Anche l’Amato ha elementi di aspetto scuri: le chiome nere come il corvo, si dirà. Le tende nel deserto bagnate si scuriscono, al sole si sbiancano.
L’enigma ulteriore è dato dalla custodia delle vigne. È una sanzione per non aver custodito la propria o un necessario passaggio rituale? È evidente che non possiamo prendere alla lettera il tema della custodia come pure quello del vagare fra i pastori. Il Cantico procede quale racconto biblicamente esoterico-iniziatico nel senso che utilizza sempre e solo immagini, simboli e termini di tipo biblico, scritturale, sapienziale, che a loro volta aprono a una serie ampia di sensi sacrali e mistici. Così per le greggi, il pascolare, le orme, le tende. Il difficile è l’operazione di “ritorno” semantico e ricompositivo rispetto alla facilità dell’“uscita ermeneutica” seguendo la traboccante ricchezza testuale-immaginale. La Vigna è Israele. Ce lo insegna Isaia per primo. E i Proverbi assimilano i virgulti della vite ai figli del giusto e l’olivo verdeggiante alla sposa virtuosa. La tenda è la Tenda della Testimonianza, ma è pure la vita umana, l’anima-corpo, la storia stessa di Israele quale passaggio dalle tende nomadi alla Tenda per eccellenza: il Tempio di Gerusalemme.
La lingua ebraica è una lingua povera, arcaica, resa al contrario complessa e raffinata da migliaia di anni di interpretazione e meditazione spirituale. Come tradurre l’inizio della risposta dell’Amato alla prima domanda di ricerca dell’Amata? Ceronetti traduce con ragionevolezza: "se non sai dove io sia…". Io traduco (sempre dal latino ma sforzandomi di seguire una spiritualità israelitica) in questo opposto modo: "se non ti conosci esci fuori…". Non penso che le scelte interpretative fatte in traduzione siano le più efficaci se fatte per “normalizzare” il testo. Non c’è nulla di normale in questo testo. Non è normale che una donna custodisca delle vigne, né che non custodisca una vigna sua, né è normale che si chieda dove sia il suo Amato quando ha appena detto di essere entrata nelle sue stanze (a meno che l’Amato sia spirituale, sfuggente, invisibile) né è razionale che l’Amata lo cerchi al meriggio fra le tende e le greggi dei pastori. Anomalo razionalmente pure che lo cerchi quando dice di essersi fermata alla sua “ombra” da “molto tempo ricercata”! È forse un gigante questo Amato da far ombra all’amata?
Pure assurdo sarebbe prendere alla lettera una donna che si compiace della fuga del suo amato e che lo celebra mentre ritorna al “colle dell’incenso” e al “monte della mirra”, invece che volerlo sempre vicino a sé! L’Amato del Cantico sembra mostrarsi sia re che pastore, sia immobile che nascosto e sfuggente! O si legge spiritualmente il Cantico oppure resta un enigma da sfinge o un testo folle oppure addirittura banale e retorico. È al contrario la chiave spirituale quella che ci permette di accennare in un secondo momento anche a una possibile prassi compatibile con la figuratività-simbolicità della narrazione.
Un altro tema significativo è quello della dialettica simbolica fra oro e argento. Il latino ci dona la ricchezza in più della forma a murena, serpentina, dei gioielli che l’Amato promette all’Amata. D’oro e d’argento. Cioè scritturalmente: il fuoco di Dio e la purezza sapiente della sua Parola. Questi due colori-materiali compaiono anche nell’argento delle colonne (come le colonne della Casa della Sapienza, come le corde della cetra davidica) e nell’oro della spalliera della lettiga che fa costruire Salmone, l’amante della divina Pace e della divina Sapienza. Oro e argento come vino e latte, come oro e marmo e avorio nella lode “architettonica” delle bellezze dell’Amato. Scritturalmente abbiamo la colomba (immagine dell’Amata) aureo-argentea del salmo 67: "splendono d'argento le ali della colomba, di riflessi d'oro le sue piume". Perché non approfondire questo scenario?
Un altro tema segnaletico è il ritornello dell’abbraccio dell’Amato all’Amata che potrebbe rinviare alla spiritualità della mano destra e della mano sinistra di Dio. La mano destra dell’Amato infatti abbraccia (misericordia), mentre la sinistra regge la nuca dell’Amata (giustizia). Questo refrain è stato utilizzato invece per insistere sul mood della reciprocità e complementarietà fra i due amanti (nulla di nuovo!) e questa retorica ermeneutica ha appiattito invece la singolarità del rapporto fra i due. Se è vero infatti che l’Amata e l’Amato si rispecchiano ciclicamente e progressivamente, è pure vero che non rivelano le stesse posizioni. L’Amato vuole conoscere di più l’Amata e unirsi sempre di più a Lei, ma è l’Amata che lo cerca e lo interroga. L’Amato presenta una posizione più autonoma e libera rispetto all’Amata: sfugge, si muove velocemente, si nasconde, scende nel suo giardino e risale sul monte e sul colle, mentre i movimenti dell’Amata sono più lenti, faticosi, delimitati o impediti. Le condizioni d’essere sono distinte. Come varia la comparsa di questo ritornello?
In primo luogo differenziamolo dal distinto refrain: "Il mio amato è per me e io per lui", che anch’esso compare più volte nel testo, ma in punti distanti, quindi non si tratta di ritornelli intercambiabili. L’immagine dell’abbraccio totale compare una prima volta stranamente appena dopo che l’Amata ha cantato il suo languore d’amore. Come è possibile? Non si tratta quindi di un languore da lontananza, da abbandono, come romanticamente siamo indotti a pensare, ma al contrario di un “languore da ebbrezza”, culminante, coincidente con un’esperienza verticalizzante. Ci sono 4 abbracci, 4 crisi mistiche dell’Eletta e gli azulejos del Duomo di Oporto ci insegnano che è l’Amato a dire: "non svegliate l’Amata". Solo il Signore può infatti giurare, ci insegna Abramo.
Anche il carattere “sigillato” dell’Amata e il suo non poter abbracciare l’Amato pur così vicino come possono non far rinviare al Santo dei santi del Tempio di Gerusalemme, realtà e immagine della massima separatezza/vicinanza sacrale possibile per Israele? Dopotutto l’Arca dell’Alleanza è allusa anche nel tema del carro e nella citazione di Aminadab, e anche il riferimento a un frutto secco (noce-nocciola) quale frutto protagonista del giardino dell’Eletto e quali beni custoditi dall’Amata dietro la porta può rinviare alla forma “a fiore di mandorlo” propria dei lucernari della Menorah del Tempio. Un errore svalutare l’edenicità del tema del risveglio, risolutivo, che avviene sotto un albero di melo. Per chi poi abbia ancora dubbi sul carattere sapienziale del Cantico basta rileggerlo e si vedrà come ogni sua frase è un concerto che fa risuonare meravigliosamente tutta la Scrittura.
Il linguaggio dell’amore e del corpo è così intenso e fantasmagorico nel Cantico dei cantici che anche ai maggiori esperti è sfuggito il valore di alcuni aspetti come il fatto che nel sacro poema compaiono ben sette altri linguaggi che si intrecciano con quello amoroso/fisico come i fili di un arazzo, le geometrie di un arabesco, le pietre di una cattedrale gotica: il linguaggio della guerra, quello della danza e della festa, la lingua del lavoro, della natura, un’eloquente semantica geografica, un senso particolare del tempo e dello spazio e una speciale attenzione ai numeri e alla dialettica quantitativa/qualitativa.
Il numero sette appartiene poi all’immaginario sapienziale biblico, sabbatico, e il Cantico era testo liturgico sabbatico e pasquale. La Sapienza si è costruita una casa, ha intagliato le sue sette colonne (Proverbi, 9.1). L’importanza culturale-spirituale del testo è colossale: senza il Cantico dei cantici non sarebbe stato pensabile il Dolce Stil Novo né opere quali i Dialoghi dell’Amore di Raimondo Lullo, l’Ipnoherotomachia Poliphili di Francesco Colonna, il culto della Madonna Nera, la cultura cortese che valorizzò l’immagine femminile, e il nostro poema influenzò persino autori come Cimabue, Michelangelo, Rembrandt, nonché fu amato da anime mistiche del calibro di San Giovanni della Croce, il cui Cantico spirituale riecheggia quello salomonico, e da Santa Teresa d’Avila, fino a Francesco di Sales e a Luigi di Montfort.
Non c’è mistico cristiano che non lo citi, anche la giovane estatica Maria Maddalena de Pazzi! Sfugge ancora oggi quale ne sia il “centro del centro”, il ritmo della sua musica, ma non possiamo non indagare e ricordare tutte le note di questa grandiosa sinfonia, senza precedenti, né mai imitata o imitabile. La difficoltà nell’interpretazione di questo testo deriva infatti anche da questo aspetto: il frequente e imprevedibile cambio di scene e di contesti e l’alternanza fra moduli linguistici e narrativi differenti, l’andamento narrativo “dialettico” in quanto continuamente oscillante fra visione/azione/rito (o fra: conversazione/invocazione/celebrazione) e l’intreccio imprevedibile dei tempi verbali e narrativi, fino al moltiplicarsi di “allusioni assolute”, cioè prive di indizi ravvicinati per la ricostruzione del loro contesto genetico-strutturale.
Per cercare di entrare più nel profondo occorre sia enucleare questi sette linguaggi e il loro possibile rapporto sia evidenziare quali siano quelli che chiamo “passaggi segnale” nei quali il testo sembra venirci incontro per aiutarci nella sua stessa lettura e comprensione o, comunque, per darci nuovi strumenti ermeneutici. Per quanto riguarda l’immaginario guerresco riassumiamo alcuni suggestivi passi: il cocchio del Faraone a cui viene paragonata l’Amata, le sentinelle che fanno il giro della città, la torre di Davide con mille scudi, i sessanta guerrieri che accompagnano la lettiga di Salomone, la bellissima immagine di “Colei che sorge come l’aurora…temibile come una linea ben schierata di accampamenti”.
La danza e la festa compaiono subito all’inizio del poema quando l’Eletta esalta l’Amato insieme alle fanciulle e riemerge più volte: dall’invito agli amici a mangiare e inebriarsi fino alla festa per l’arrivo del re Salomone incoronato e alla danza affascinante della Sulammita. Il tema della natura, anche escludendo gli elementi riferibili al Tempio di Gerusalemme, è comunque ricchissimo: fichi, mele, melograni, noci, uva, (i frutti del pasquale charoset) gigli, palme, giardini e deserti, greggi, cervi e capre selvatiche, leoni, leopardi colorano il nostro inno. Intensa pure la lingua del lavoro, della costruzione, dell’impegno: pascolare greggi, forgiare gioielli, intessere ricami, raccogliere mirra e miele, edificare baldacchini e lettighe, fare la guardia alle vigne e alla città, controllare la fioritura delle vigne, la maturazione dei melograni, dei fichi.
Sarebbe poi da indagare se possano individuarsi dei percorsi di sviluppo semantico nella sequenza dei numerosi nomi di luogo, sempre significativi, che compaiono nel testo: Qedar, Cipro, Engaddi, Bether, Gerusalemme, Israele, Libano, Galaad, Amana, Sanir, Hermon, Aminadab, Hesebon, Damasco, Carmelo, Baal-Ammon. Certamente forte è il senso sacrale della fisicità del territorio e il suo intimo rapporto con la storia spirituale di Israele e di Gerusalemme. Il Cantico dei cantici rivela inoltre dei passaggi qualitativi di tempo e di spazio assai precisi e significativi: il tempo della potatura, la maturazione dei frutti, il tempo iniziatico della “sorella che non ha ancora seni”, il ritornello rituale della brezza serale, che ricorda il tempo edenico dell’incontro con Dio nonché l’offerta serale dell’incenso nel Tempio, l’arrivo della primavera, i due “notturni”, le due scene dove viene evocato il deserto, la dialettica fra gli ambienti interni (la cella del vino) e le campagne aperte.
Possiamo poi precisare alcune dinamiche spaziali ricorrenti come i due movimenti complementari della “discesa” dell’Eletto nel giardino e del suo “ritorno” al monte degli aromi e al colle dell’incenso. Quanto sia prezioso il senso qualitativo dello spazio lo vediamo in un altro esempio quando il soffermarsi del re nel suo “divano” viene fatto coincidere con l’effusione del profumo da parte del nardo dell’Amata. A livello numerologico e numerico possiamo riflettere su pochi ma assai significativi passaggi: i mille scudi appesi alla torre di David, le sessanta regine e le ottanta donne, l’unicità dell’Amata, i sessanta guerrieri, i mille sicli d’argento per la vigna di Salomone.
Il senso del numero, di una selezione quantitativa, equivalente a un’elezione qualitativa, percorre tutto l’inno per cui l’Amato è un melo fra tutti gli altri alberi del bosco, l’Amata è bellissima e unica fra le donne, come Gerusalemme è unica rispetto ogni altra città, e abbiamo decine di queste formule. Possiamo notare un ritmo numerico quasi rituale anche nei vari casi di duplicazione o sdoppiamento delle scene: due notturni, due uscite dal deserto, baldacchino e lettiga, sole e luna, oro e argento, i due seni, le tortore, cervi e capre, monte e colle, re e Salomone, vigna di Salomone e vigna dell’Amata. Dopotutto Dio crea e armonizza il cosmo tramite il numero 2 come ci ricorda il Siracide: considera perciò tutte le opere dell’Altissimo due a due, una di fronte all’altra.
E ancora: gli elementi si scambiavano ordine fra loro, come le note di un'arpa variano la specie del ritmo, pur conservando sempre lo stesso tono (Sapienza 19, 18). Massimo e raffinatissimo è infatti l’equilibrio fra unità e dualità nel Cantico, come pure la dialettica fra singolarità e molteplicità (es: vigna/vigne). Il Cantico rivela una ricchezza semantica e spirituale immensa: il tema della madre e della casa, l’immagine ricorrente dei seni, le relazioni fra coralità e individualità, i personaggi che non parlano o parlano poco e in modo rituale (amici, sorella, madre, le figlie di Gerusalemme, ecc.), il modulo delle domande e dei ritornelli (catturateci le volpi, venga il suo amato nel suo giardino, ecc.), i passi che riguardano ruoli regali o momenti nuziali, il topos della malattia e del sonno, le possibili allusioni a passi o scene bibliche (l’Eden, Genesi, Esodo, la costruzione del Tempio, ecc.).
Altri “indizi” di ricerca li offre il testo in altri modi. Quando recita “sul mio piccolo letto ho cercato colui che amo” ci allerta con grande chiarezza sull’esigenza di non fermarsi alla lettera del testo, mentre l’insistenza concentrica, di condensazione spazio-temporale, della corona del re con il tempo del giorno delle nozze e del giorno della gioia (Ct. 3,11, da me tradotto in piena fedeltà alla Vulgata Clementina, che triplica l’ablativo di luogo) richiama l’assialità del rispecchiarsi verticale della corona con il regno, il primo e l’ultimo elemento dell’albero divino delle Sephirot.
Non possiamo non chiederci infine se esistano delle relazioni (magari progressive, rituali) fra i “luoghi della comunanza e della vicinanza” dei due protagonisti: la stanza nuziale, la terra che si copre di fiori, il muro divisorio, la cella del vino, le mura della città, la mirra, la porta, le vigne, il deserto (e la sua “implicita” lettiga) che li vede finalmente uniti alla fine del poema. Il Cantico dei cantici è la summa dell’Alleanza di Dio con Israele, è il “nono Cantico”, prima del decimo che sarà quello della Pasqua eterna (il Cantico dell’Agnello nell’Apocalisse?) e ci mostra una natura complessivamente non solo templare-sapienziale ma pure di sapore escatologico, messianico. Molti sono i verbi di tipo rivelativo nel poema: mostrati, rivelami, alzati, vieni, risuoni, ritorna, uscite, salire, scendere, soffia, stillare, risvegliare, fammi udire, e il ricorrente tema della ricerca, dell’attesa, dell’apparire improvviso dell’Amato, epifanico, e il suo incedere e scendere imprevedibile, imminente, urgente.
Se si vuole infine individuare un altro percorso di ricerca su questo misterioso poema, per me quasi integralmente di tipo sapienziale-templare, non possiamo non affrontare la dialettica maschile-femminile (in senso spirituale-rituale) la quale penso vada indagata a partire dalla lingua ebraica biblica e dalle sue qualificazioni delle parole in senso maschile o femminile. La notte è maschile o femminile? Il cedro e il nardo sono maschili o femminili? La lettiga di Salomone e la torre di David sono femminili o maschili? Ecco per me la semplice ma sapiente chiave: se di giorno i sacerdoti uomini attendevano al culto della divina Presenza vista femminilmente quale Gloria (Shekinah), di notte erano le donne (e la notte è maschile, in quanto sterile) a servire nel Tempio una Presenza che si manifestava/occultava maschilmente quale Amato…Se abbiamo infine l’umiltà di tornare alla millenaria saggezza rabbinica apprenderemo che esiste un Midrash decisivo per la comprensione del Cantico dei cantici: Salomone consacrò il Tempio lo stesso giorno delle sue nozze con la figlia del Faraone. Ecco la spiegazione genetica dell’intreccio strutturale inestricabile delle due lingue fondamentali del Cantico: quella amorosa e quella mistico-templare.
Domenica 28 luglio 2019
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