di Sergio Bevilacqua
Molti della mia generazione, figli non troppo lontani dalla fine delle Seconda guerra mondiale con le due atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki per chiudere il conflitto e sconfiggere definitivamente il Giappone, dopo averlo terminato con clamore di bombardamenti con la Germania e prima un poco meno clamorosamente con l’Italia, hanno subito un trauma da quei due eventi così distruttivi e trascendenti. Teleutofobia: la paura della fine di tutto, della distruzione non solo di noi stessi ma di tutto ciò che ci circonda, la fine della specie umana e dei suoi dialoghi assurdi, bellissimi e convintamente infiniti, della sua presenza in quest’universo che non sappiamo cosa sia davvero… Ogni epoca ha uno spazio per questo dispositivo tragico, un motivo per temere la fine di tutto: la peste, i disastri ambientali, la bomba atomica. Immaginare che qualcosa cancelli la nostra presenza su questa palla rotante, che noi vediamo così diversa dalle altre del nostro sistema solare, per condurla a una condizione desertica, piena di crateri dovuti ad esplosioni create da noi e non, come vediamo sulla Luna e su Marte causata da fugaci e inopportuni meteoriti, è una paura che aspetta ognora solo di destarsi: e visto che la guerra, in questa disgraziata umanità, è ben presente e moltissimi rozzi tra noi la vivono come elemento naturale, quella paura è un elemento più che tattico.
Quanti, se si fanno una sincera analisi di coscienza, sono disposti a lasciare beni, proprietà, una quota di benessere e di libertà per evitare “il teleuto”, la fine di tutto? E sottostare a chi possiede quegli strumenti di distruzione e ne promuove con acume l’utilizzo?
Ci siamo forse solo illusi di poter incanalare il disadattamento umano al mondo circostante, che la psicanalisi ha denominato con il gioco di parole “Lo stile è l’Uomo” ma che è anche “L’ostile è l’Uomo”, in forme meno distruttive come la competizione economica? In realtà sono sempre esistite forme di primitivismo che hanno messo sullo stesso piano le distruzioni belliche e le asperità della concorrenza tra aziende e Stati per il controllo delle risorse naturali, delle tecnologie e dei mercati, anche se si tratta di due modi completamente diverse di esprimere e digerire la ostilità umana. La produzione diretta della morte non è mai come il lento soffocamento magari reversibile dell’immorale colonialismo, l’appropriazione giuridica di territori, la subordinazione dovuta a più efficienti ed efficaci meccanismi economici prodotti da altri. Specializzarsi nella produzione diretta della morte, nell’uso della guerra è riproporre un passato antropologico superato dalla società umano di oggi, economica e industriale, e dal suo contatto col desiderio, quello della ricerca e sviluppo, della varietà, dell’arte e degli artisti che segna il momento d’oggi.
È chiaro che dietro la scelta di tornare alla clava c’è l’impossibilità di usare forme di socializzazione più moderne. E la volontà, e anche la possibilità pratica, di terrorizzare l’umanità con essa. Il lancio di un missile intercontinentale e, dopo poche ore, la dichiarazione politica di coinvolgimento diretto in guerra di un altro Paese nucleare, la Gran Bretagna, nel confitto ucraino, alza il tasso della paura diffusa di un botta e risposta di distruzioni al modo di Hiroshima e Nagasaki.
Giusto? Sbagliato? Vero? Falso? Certamente teleutofobico: con questi due atti nessun essere umano sarà più sereno come lo era prima, perché tutti sanno che l’avvio di un confronto a suon di atomiche sarebbe un fatto antropologico mai visto e di gravità mai sperimentata. Per il momento, la sua sola paura condiziona già i comportamenti di tutti: cancella alcuni strati profondi della felicità di 8 miliardi di esseri umani, induce decisioni conseguenti causa la pressione su di noi delle enormi distruzioni evocate di vita e ambiente, eccita il peggio maschile (va detto…) dell’umanità, con le violenze edipiche che trovano delirante espressione nelle distruzioni esterne, come già hanno causate all’interno del povero nostro maschio umano contemporaneo, progressivamente in sempre più grave crisi d’identità.
Non è mai troppo presto per un passaggio a una politica della vita, magari mariana, magari materna, magari matrilineare, magari matriarcale, magari partoriente, magari amorosa, magari pacifica, madre della vita e madre Terra.
Guardiamo i fatti: uso della teleutofobia e violenza sulla donna sono mosse dallo stesso istinto. Istinto di morte, non istinto di vita, e guardate da dove vengono: la prima viene da Paesi primari (non che gli altri siano angeli, beninteso, ma la differenza tecnica c’è), che non operano sofisticati piani desideranti, ma si appoggiano a supposte tradizioni e principi antropologici perenni del tutto teorici, vieppiù in epoca di Esarivoluzione (1. Globalizzazione, 2, Antropocene, 3. Ginecoforia, 4. Ipermediatizzazione, 5. Transumanesimo, e anche dunque 6. Teleutofobia), anche se condivisi da tutti coloro che la esarivoluzione non vorrebbero perché dovrebbero cambiare e, con la loro ottusa resistenza al cambiamento, preferiscono impedire agli altri, che vogliono, di farlo. E se vediamo gli eventi di violenza sulle donne, essi vengono da casi altrettanto “primari”, elementari, l’impossibilità di vivere senza quella persona e l’impossibilità di considerare i diritti di quella persona di essere come le pare e di sbagliare anche, senza però ergersi a giudici (perché nei Paesi civili i giudici stanno nei tribunali) insieme a una violenza meccanica che vede l’uso della forza fisica e di strumenti di morte.
Domenica 24 novembre 2024
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