di Fulvio Beltrami
KAMPALA (il corrispondente) – La decisione del governo cinese di inviare un contingente militare in Sud Sudan sotto bandiera Onu ma con pieno mandato offensivo e l’intransigenza del governo ugandese a non ritirare le sue truppe che dal dicembre 2013 impediscono alla ribellione di Riek Machar di prendere il controllo del paese, sono risultati il preludio di un'offensiva diplomatica a largo raggio che ha costretto Stati Uniti, Europa, Unione africana, Nazioni Unite ad allinearsi dinanzi alla nuova realtà sorta nel martoriato teatro di guerra sud sudanese ammettendo i fallimenti registrati nei vari tentativi di interrompere il conflitto. Il messaggio giunto alla ribellione sud sudanese dai palazzi del potere cinese e ugandese non lascia spazi di interpretazione. La potenza militare regionale e quella asiatica sono determinate a coordinare gli sforzi militari con il chiaro intento di distruggere ogni sacca di resistenza che metta a rischio i loro vitali e colossali interessi petroliferi nella più giovane nazione africana.
Una prospettiva che il SPLM-Opposition e le milizie ad esso collegate (la più famosa è la White Army - Armata Bianca) non possono nemmeno immaginare di opporsi militarmente con la minima speranza di successo. È questo constato di realpolitik che ha indotto il leader dell’opposizione, il dottor Machar ad ammorbidire le sue posizioni e a ordinare ai suoi miliziani di attestarsi su posizioni difensive senza tentare nuove offensive militari, archiviando l’obiettivo di conquistare la capitale: Juba. Durante l’ultima settimana di agosto il presidente ugandese Yoweri Museveni ha convocato a Kampala entrambi i contendenti di questa guerra civile che dura da quasi un anno. Machar e il presidente Salva Kiir hanno risposto positivamente all’invito e sono stati ricevuti separatamente. Il primo dal controverso generale Salim Saleh numero due del potere ugandese e fratello di Museveni. Il secondo da Museveni in persona.
Gli esiti degli incontri non sono mai stati divulgati dai rispettivi governi né tantomeno dall’opposizione armata sud sudanese. Un'antica e nota tattica del “Vecchio con il cappello” (come viene chiamato dalla popolazione ugandese Museveni) che apertamente ha sempre affermato: “I giornalisti sono come le puttanelle nel bar. Le cose serie le devono apprendere a giochi fatti altrimenti le loro chiacchiere rovinano tutto”. Una chiara limitazione della libertà di stampa nel paese ma estremamente funzionale per la complessa macchina da guerra e di potere dell'UPDF (Ugandan People Defence Force) che detiene le redini del paese da 27 anni influenzando le sorti del Continente: dal Congo alla Somalia. Cosa si è discusso nelle riunioni segrete di Kampala è stato intuito dalle dichiarazioni ed avvenimenti che si sono susseguiti immediatamente dopo. Il leader ribelle Machar agli inizi di settembre ha dichiarato il suo consenso alla presenza delle truppe di invasione ugandese nel Sud Sudan affermando che rappresentano il principale contributo alla pace del suo paese. Questo dopo che per mesi Machar ha intentato offensive su offensive per sfondare la linea di difesa ugandese che non ha esitato ad usare armi al fosforo, napalm e bombe a frammentazione multipla (armi proibite a livello internazionale) per fermare l’avanzata della ribellione.
Affermazione diametralmente opposta alle accuse (fondate) fino ad ora rivolte a Kampala di proteggere un dittatore che non gode più del supporto popolare e di impedire la liberazione del Sud Sudan. Il 10 settembre scorso il SPLM-Opposition ha aperto un ufficio di rappresentanza a Kampala sotto palese consenso delle autorità ugandesi. L’apertura dell’ufficio di rappresentanza nella capitale del vicino paese è strategica e di estrema importanza visto che in Uganda vive la più importante e ricca diaspora sud sudanese capace di finanziare sia lo sforzo bellico che il processo di pace. Qualche giorno dopo l’improvviso avvicinamento di Machar al suo nemico giurato, Museveni, il leader dell’opposizione (detentore del 70% delle forze armate sud sudanesi) ha ricevuto un invito dal governo di Pechino “per parlare della prolungata crisi del Sud Sudan che sta mettendo a repentaglio la sicurezza regionale e la storica collaborazione tra Cina e Africa” come reciterebbe il testo dell’invito secondo indiscrezioni trapelate dalle file della ribellione.
Il leader ha inviato in avanscoperta il Dr. Dhieu Mathok Diing, suo uomo fidato, Hussein Mar Nyout, responsabile degli Affari Umanitari della ribellione e il Dr. Richard K. Mulla, il vicepresidente della Giustizia e della Commissione per i Diritti Umani con il palese obiettivo di facilitare l’incontro con le massime autorità del Partito comunista e dell’Armata Popolare. Come nel caso degli incontri di Kampala anche quello tra Riek Machar e la creme del potere cinese è stato protetto dal massimo riserbo. Esiste solo una breve quanto diplomatica affermazione fatta dal portavoce della ribellione, Kames Gatdet: “Il Dr. Machar ha presieduto incontri bilaterali ed ufficiali con le massime autorità della Repubblica Popolare Cinese con l’obiettivo di creare un mutuo banco d’intesa”. Il motivo dell’invito di Machar a Pechino, trattato con la stessa dignità di un Capo di Stato, è semplice. La ribellione del SPLM-O controlla i giacimenti petroliferi degli Stati di Jongley, Unity e Upper Nile. La Cina è il principale investitore in questi giacimenti e l’importazione del greggio sud sudanese ha subito un crollo di 150.000 barili giornalieri dal dicembre 2013.
L’offensiva diplomatica Sino-ugandese non si è limitata su Machar coinvolgendo in pieno il “proteggé”: il presidente Salva Kiir che è rimasto al potere grazie all’impegno militare ugandese e ai finanziamenti del governo cinese principale ente finanziatore di armi e munizioni all’esercito regolare che si trova fin dall’inizio della guerra civile a ranghi ridotti (solo il 30% degli effettivi). Non sono noti i soggetti delle discussioni avvenute a Kampala tra Kiir, Museveni e il potentissimo ambasciatore Cinese in Uganda, una vera e propria eminenza grigia inviata dal Dragone per curare gli interessi petroliferi cinesi nella Regione dei Grandi Laghi. Sono comunque intuibili dalla serie di ritrattazioni fatte dal presidente sud sudanese che ora accetta la proposta federalistica dell’opposizione e la condivisione del potere con il suo nemico Riek Machar. I colloqui di pace sono stati bruscamente spostati da Addis Abeba a Bahri Dar, una località del Sud Sudan a 300 km dalla capitale Juba dove i contendenti della crisi si sono incontrati personalmente per la prima volta il 2 ottobre scorso.
Un duro colpo al prestigio dell’Unione africana e della IGAD (Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo) enti incaricati di risolvere la crisi sud sudanese. Un messaggio chiaro rivolto all'IGAD che ha tentato in questi mesi di mettere in discussione la presenza dell’esercito ugandese apertamente schierato da una parte dei contenzioso e le interferenze cinesi. L’IGAD, compreso il messaggio, sembra essersi immediatamente allineata al corso Sino-ugandese, riconoscendo i colloqui svoltesi a Bahri Dar inviando nella remota località suoi rappresentanti in veste di osservatori. L’incontro di Bahri Dar sembra aver miracolosamente risolto gli insormontabili ostacoli fino ad ora posti da Machar e Kiir, principali cause del fallimento di due tregue e tre accordi di pace stipulati ad Addis Abeba. I due contendenti e criminali di guerra, si sono accordati sulla composizione del governo Transitorio, sul sistema Federale di amministrazione del paese, sulla struttura della nuovo sistema giudiziario, ristrutturazione delle forze armate, doveri e responsabilità del presidente (Salva Kiir) e del primo ministro (Riek Machar). Il governo provvisorio dovrà gestire la fase di transizione alle libere elezioni e scrivere la Costituzione definitiva su base federalistica. Il Sud Sudan non ha mai avuto una Costituzione.
Lo scorso 16 ottobre le decisioni prese a Bahri Dar sono state ratificate all’incontro ufficiale avvenuto ad Addis Abeba “Una satirica mossa di Pechino e Kampala per offrire un piccolo prestigio alla IGAD e non umiliarla completamente”, fa notare un giornalista keniota. Pechino ha posto un pesante veto al tentativo del Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon di rifiutare la richiesta di amnistia presentata dai belligeranti. “Non ci sarà nessun'amnistia per i leader responsabili della morte di centinaia di migliaia di civili durante i chiari tentativi di pulizia etnica. Massacri perpetuati nelle scuole, negli ospedali e nelle chiese.” aveva sentenziato Hervé Ladsous capo della missione di pace Onu in Sud Sudan. “I responsabili delle atrocità commesse in Sud Sudan dovranno affrontare la giustizia internazionale” aveva categoricamente affermato Ban Ki-Moon. Dopo il veto cinese queste dichiarazioni sono state trasformate in lettera morta e collocate nei polverosi archivi del Palazzo di Vetro a New York con il beneplacito degli Stati Uniti.
L’offensiva diplomatica Sino-ugandese sembra avere ottime possibilità di riuscire laddove Unione africana, Onu, Stati Uniti, IGAD e Unione Europea hanno ripetutamente fallito. Ma a che prezzo? La pax imposta da Kampala e Pechino è strettamente orientata a salvaguardare gli interessi petroliferi che le due potenze hanno nel martoriato paese. In un cinico e alquanto atroce esercizio di realpolitik, Kampala e Pechino hanno chiarito che il rispetto dei diritti umani e la necessità di giustizia sono dettagli secondari dinnanzi alla esigenza di stabilità regionale imponendo una soluzione che salvaguardi gli interessi contrapposti dei due belligeranti ma non certo quelli della popolazione sud sudanese. L’applicazione del sistema federale nella giovane Repubblica equivale di fatto ad una tacita spartizione del paese da parte di Riek Machar e Salva Kiir che, se ben conosco la lungimiranza e le astuzie tipiche del potere ugandese e cinese, saranno a medio termine agnelli sacrificali, già oggi comparati a due rasoi bic di poco conto. Le cui lame si stanno sfilacciando.
Sabato 18 ottobre 2014
© Riproduzione riservata
4517 visualizzazioni