di Sergio Bevilacqua
Continua a sorprendere la ottima direzione artistica e generale delle esposizioni presso la Villa dei Capolavori a Mamiano di Traversetolo (Parma), già del mecenate dell’Arte, collezionista ed esteta Luigi Magnani, e divenuta progressivamente punto di riferimento nel panorama espositivo italiano grazie alle mostre di grande intelligenza e opportunità scientifica volute da Stefano Roffi.
Questa su “Felice Casorati. Il concerto della pittura” va a sanare una delle tante falle storiche sulla valorizzazione estetica dell’arte della prima metà del ‘900 italiano, ove Casorati svolge una sua ricerca del tutto personale e professionale, rispetto alla quale credo di poter dire che la guida è l’eccellenza della realizzazione pittorica, in tutti i suoi versanti, da quello puramente manifatturiero a quello iconologico e stilistico. La mostra, dal taglio storico, inaugurata il 18 marzo, curata, insieme a Roffi, da Daniela Ferrari e Giorgina Bertolino, documenta come ogni quadro del novarese sia infatti un lavoro di grande serietà artistica, dalla giovinezza para-macchiaiola e manetiana, fino agli ultimi esiti metafisici e metapittorici. Impossibile non notare come la ricerca del novarese sia sempre profonda e serissima, caratterizzata da acutissima intelligenza iconologica. E così rimane, anche quando vicino a lui si scatenavano i cavalli dell’avanguardia dada, surrealista, espressionista ed astratta, e un suo quasi coevo, il ferrarese-parigino Boldini, nel primo trentennio del XX secolo, si sbilanciava vigorosamente in apparenze e voli pindarici lontano dalla scienza pittorica, verso universi di gratificazione esteriore e modaiola, pur con tutto il fascino intrinseco.
Felice Casorati non ha la valigia pesante, non vuole e non deve dimostrare niente a nessuno, la sua arte non è una via per la promozione sociale o per la felicità mondana: lui vuole essere artista, lui dipinge, lui parte dalle tele, adorate anche quando bianche, tanto da divenire scenografie di tante sue opere; parte dai pigmenti, coi quali si confeziona da solo i calori della tavolozza. Parte dagli universi dell’umano e dell’intimo, e direi più alla Manet che alla Gozzano: le nature morte dei suoi quadri e la oggettistica spesso riportata a illustrare visioni simboliche e psicologiche, non sono dell’ordine delle “…piccole cose di pessimo gusto”, della Signorina Felicita dell’altrettanto piemontese (o meglio proprio torinese, come acquisito poi lui stesso diverrà) Guido Gozzano. Quegli oggetti sono da ascrivere al registro del simbolico e del metaforico, cioè parte di un delicato progetto di rappresentazione, come avviene in Édouard Manet.
Malgrado questa cautela semiologica, non si può definire Felice Casorati un timido, non lo è: la sua apparente flemma è dovuta a una progettazione dell’opera accurata e sofisticata, di certo guidata dalla ragione, ma non direi da una astrazione cerebrale. La sua origine familiare di classe elevata, ben fruita in termini etici e pedagogici, lo dota di una grande base culturale, di cui egli rimane orgoglioso e che informa tutta la magistralità del suo lavoro. Ne è dimostrazione il frequente richiamo ad altra arte parnasiana, la musica, presente nei suoi quadri sia sottoforma di ritratti e citazioni di compositori che di strumenti musicali. Felice può frequentare i contesti innovativi, biennali veneziane e gli ambienti della ricerca più evoluta, ma ha di suo idee molto chiare: la pittura è strumento caratteristico di rappresentazione, a cui, nel ‘900, chiedere cose che non devono confondersi con altri campi già affermati, come quello della fotografia. Forse per questo Casorati quasi rinuncia al paesaggio, ricercando nella figura umana in particolare femminile e nella natura morta gli effetti del simbolico e del viaggio in un’astrazione intima, delicata e oggettuale.
È molto interessante notare come, coerentemente, dalla eccellente qualità del disegno e della concezione figurativa ben visibile nel suo primo decennio d’attività, Casorati decolli poi con una costruzione dell’immagine dalle intenzioni evocative e filosofiche, raggiungendo un equilibrio che lo pone a cavallo tra Delvaux e De Chirico, con la figura umana che sfugge all’astrazione ma diviene simulacro di pensiero, quasi sacralizzata in una fantasia antropologica muliebre. Casorati è come se offrisse al Padre tutta la gamma della possibile manifestazione femminile, in termini di classe sociale, di classe d’età e di significato emozionale, fino a segmentarla in pezzi di corpo di cui l’intero è puro pretesto per esercizi geometrici e antropometrici. L’uomo, il maschio non esiste, o meglio è un sempre presente voyeur, spesso reso problematico da adolescenti implumi, quasi a testimoniare la purezza pre-sessuale e vergine della catarsi artistica. Casorati studia la donna, le sue espressioni e la sua comunicazione dell’espressioni del viso e del corpo, sia nelle bambine che nelle vecchie che nelle bellezze della giovinezza, la battezza con nomi che sono pretesti: il suo viaggio è nell’eterno femminino, non nell’una o nell’altra, e lo cerca, e lo raffigura, e lo considera, ma non in fuga come nelle surreali cariatidi delvauxiane. La sua donna è in casa. Il mondo del suo femminino è intimo e sa di famiglia, si correla agli oggetti quotidiani e rifugge dal paesaggio, se non attraverso scorci da finestre per caso, come nel fantasma Silvana Cenni, in panorami ideali figli del pensiero prospettico rinascimentale.
Un percorso dell’arte, quello segnato da Casorati, istruttivo anche oggi, sia nell’originalità delle sue scelte iconologiche, sia nella purezza della vocazione pittorica. E mentre il suo caso è ispirazione per artisti d’oggi, anche l’arte digitale gli si può ispirare, risemantizzando opere e richiamando l’attenzione sul grande novarese: così Antibrote con il suo lavoro di commento alla già citata Silvana Cenni, la cui espressione e allure viene decodificata e semantizzata con le tecniche, superbamente agite, del digitale appunto.
Questa antologica disvela un grandissimo artista del quadro novecentesco, che figurerebbe anche molto di più sul piano internazionale, se i canali della promozione dell’arte italiana della prima metà del ‘900 non fossero stati ingombrati da tanto autolesionismo estetico di base ideologica. Ancor’oggi, i grandi artisti di quel mezzo secolo sono vessati dalla domanda: ma hanno avuto a che fare col fascismo? Come se l’arte, a ottant’anni dalla fine di quel regime, debba essere ancora classificata come amica o nemica… L’arte è sempre amica, sempre serve a capire l’umano, non aggredisce e non fa male, e spiega sia l’angelo che il demone, senza prendere parte.
Lunedì 20 marzo 2023
© Riproduzione riservata
1116 visualizzazioni