di Gianluca Valpondi
Finalmente siamo al varo del tanto discusso reddito di cittadinanza, che nessuno sa quali frutti porterà, nessuno sa con precisione nemmeno quali saranno le effettive misure attuative nel dettaglio della realtà concreta, piuttosto imprevedibile, viste le tante variabili in gioco. Si va più o meno a spanne. Intanto si comincia a parlare della figura del navigator, che dovrebbe traghettare il disoccupato “redditato” verso il lavoro, l’impiego degnamente remunerato. Di questi “navigatori” (a vista) ce ne dovranno essere 10mila su tutto il territorio nazionale e verranno pagati 30mila euro all’anno. Ma prima ci sarà ovviamente il bando per le assunzioni di tali nuove figure professionali, scelte tra laureati in economia, giurisprudenza, psicologia o quant’altro. Fare un bando nazionale e selezionare il personale ha i suoi costi (altri 200 milioni o giù di lì), da aggiungere ai 300 milioni di euro annui che percepiranno, una volta assunti, i navigator, e poi ovviamente ai 9 (o 5? facciamo 7?) miliardi di euro annui del reddito di cittadinanza in se stesso, quello che cioè dovrebbe finire nelle tasche dei cittadini disoccupati più la riforma dei centri per l’impiego. Tutto questo dispendio di soldi ed energie ha un qualche senso umano? Pare proprio di no, purtroppo. A parte che anche il Sole24Ore fece notare che c’è una categoria di lavoro efficace ed efficiente per l’economia nazionale, ma non debitamente riconosciuta né retribuita, ovvero quella del lavoro domestico (le “casalinghe” o le donne che lavorano, come possono, dentro oltre che fuori casa); a parte che i disabili al lavoro o a certe tipologie di lavoro (bambini, anziani, portatori di handicap) avrebbero, loro sì, diritto ad essere riconosciuti nella loro dignità; a parte che l’integrazione e la contiguità e continuità scuola-lavoro è davvero, questo sì, un tema cruciale per combattere la disoccupazione; ma siamo sicuri che il reddito di cittadinanza aiuti a sanare la piaga della povertà dovuta alla disoccupazione? Temo proprio di no. È mai possibile che, se messi nelle migliori condizioni da parte anche dello Stato, domanda e offerta di lavoro non si debbano incontrare? È mai possibile dover imbastire una macchina statale così costosa per fare quello che la natura umana fa naturalmente, se non impedita a farlo, in quanto intrinsecamente sociabile per diventare socievole? Chi decide quali sarebbero i lavori “socialmente utili” per i nullafacenti? E poi, dopo alcune (quali?) offerte di lavoro rifiutate, il cittadino cosa diventa? Gli si tatua in fronte una F di fannullone, decretandone la morte sociale? Chi non ha visto il film L’attimo fuggente col compianto Robin Williams? Andiamo verso una società di schiavi stupidi? Direi di no, andiamo semplicemente incontro al fallimento della società così concepita, perché, volenti o nolenti, la natura, anche quella umana, si ribella al voler “raddrizzare la gambe ai cani”. È cosa buona e giusta e anzi sacrosanta voler tutelare il disoccupato, ma in primis questo va fatto facendo leva sulle sue virtù sociali, non dando per assodati e irrimediabilmente connaturati i suoi vizi sociali. Lo Stato che, guardandoci dall’alto in basso, ci cerca il lavoro non ci piace, perché il lavoro che nobilita l’uomo è altra cosa. Perché piuttosto lo Stato dovrebbe mettere tutti i cittadini abili al lavoro nelle condizioni di cercarselo e trovarselo e anche crearselo il lavoro, e di offrirlo anche il lavoro, intervenendo solo, sussidiariamente, nei casi in cui sia obiettivamente impossibile che il privato anche associato ce la possa fare. É delirante pensare che in Italia tutti i disoccupati siano inabili a cercarsi un lavoro. Sarà che bisogna abbassare il costo del lavoro? Sarà che bisogna sostenere la libera impresa in un regime di sana concorrenza? Sarà che le iniziative virtuose del privato sociale devono essere riconosciute, sostenute, favorite, promosse? Sarà che lo Stato sociale, se vuole essere di eccellenza, deve accettare l’onesta concorrenza del privato sociale? E anche l’economia ha le sue leggi, incompatibili con questa trovata del reddito di cittadinanza, malamente concepita. E salviamo, va bene, anche pure le buone intenzioni di assistere le persone nelle zone e nei momenti di fragilità che sfuggono alle misure legate ad invalidità e fragilità già riconosciute, ma comunque non sarebbe questo il modo, non con l’assistenzialismo statalista, non con le fabbriche di clientelismo, corruzione, voto di scambio, parassitismi vari ed eventuali, inefficienza e inefficacia, burocratizzazione deresponsabilizzante.
Sabato 9 marzo 2019
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