di Sergio Bevilacqua
È un viaggio psichedelico nell'eterno femminino della prima donna, quella riproduttiva, quello intuito da Debussy e realizzato, rivisto più e più volte dal 1893 al 1902, sul testo intelligente e funzionale di Maurice Maeterlink.
Pelléas et Mélisande, messo in scena al Pavarotti Freni di Modena per la impeccabile, ispirata regia di Barbe & Ducet, ci fa avvertire come il teatro d’opera, crocevia dell’intero Parnaso, sia governato dalla Musica. L’intuizione del musicista è infatti l’elemento sempre determinante, e quasi potremmo dire che il resto aiuti soltanto… Però, va considerata sempre la storia e anche l’evoluzione della fruizione: l’ipertrofia visiva tipica della specie umana (il primo senso che il piccolo di uomo sviluppa…) ha trovato nel XXI secolo la sua apoteosi. Certo, ci sono voluti 150 anni perché la fotografia evolvesse, prendesse piede come strumento della memoria, si componesse in cinematografo, incontrasse prima le tecnologie televisive e poi il digitale, con i suoi enormi archivi e capacità elaborative, nel web e nei cellulari, e arrivasse a dominare con semplicità sopra tutti gli altri sensi… Oggi, dunque, les jeux sont faits, e i conti con la vista devono farli tutti i sensi. E in particolare gli spettacoli, come il teatro musicale e d’arte, che li mettono insieme.
Ma… ma, quando la musica è un idillio con l’umano, quando raggiunge i livelli sinfonici e sin-patici di Pelléas et Mélisande del grande genio Claude Debussy, non dico che la vista si confonde ed è bello essere ciechi, ma lo spirito si eleva con essa come fa dall’eternità o quanto meno dall’esistenza della grande sinfonia. Un’esperienza semichiliastica dalla quale il cerebrale musicista fin de siecle prende l’origine: Giovanni Pierluigi da Palestrina (XVI secolo) di cui è una sorta di reincarnazione estetica, lo guida e segna il confine col mondo tsunamizzato (l’onda di Hakusai che incombe su Debussy, in vari modi…) del Novecento.
Che cosa succede allora sul palcoscenico (e nella buca!) del “Pelléas”? All’inizio, in un mondo dove sembra di vivere quasi sottoterra, con gli alberi quasi loro radici, un uomo perdutosi incontra una donna perdutasi. Non c’è condizione più sostanziale per un maschio umano dell’essersi perduto a caccia dietro un cinghiale o per una femmina umana dell’essersi perduta dietro un sogno d’esistenza e d’amore mai disvelati. E quindi ecco emergere la purezza della relazione: perché non c’è uomo senza donna, nella storia, fino ai tempi dell’opera di Debussy e anche ai confini del nuovo millennio.
Chi ha però letto le note di regia della ottima coppia di canadesi québécois, sulla bella messinscena coprodotta da Modena e Piacenza con il grande Regio di Parma già della divina Anna Maria Meo, farà fatica a ritrovare il loro punto di vista nel mio commento. Infatti, la loro ipotesi drammaturgica, colta e avvincente, riguarda simbolismo ed esoterismo e lega la fenomenologia dell’opera a fattori storici e di esprit du temps, ben corredati da espedienti scenografici e costumi... Il riferimento ad artisti coevi come il polittico richiamato di Arnold Bocklin, supremo simbolista, aiuta di certo la costruzione significante della scenografia e il suo vero senso profondo...
Che è invece risultato molto, molto superiore alle loro intenzioni!
Errore? Mai! Di fronte a un siffatto successo estetico, chi vince è sempre il carro dell’arte, e Barbe & Doucet ne sono inconsapevoli concause: la grandezza del loro lavoro è ancora più esaltata dalla incomprensione del risultato. E, forse, questo vale oggi anche per i visionari Claude Debussy e Maurice Maeterlinck, seppur in un odi et amo che è durato per oltre 20 anni a causa di Mélisande.
Tutto quadra infatti oggi, nel 2023, e quadra meglio nella mia interpretazione che nella volontà della coppia registica. Non è una casualità: la grande arte quando è tale prorompe e impera, e il lavoro musicale di Claude Debussy in Pelléas et Mélisande è grande arte per grandi temi, con la solida evanescente spalla del testo iperpoetico di Maeterlinck e la bellissima costruzione visiva di scenografie, costumi, coreografie (ogni passo è calcolato sul palcoscenico, ed è una vera danza…) del duo canadese. L’andamento sinfonico ci accompagna come una magia e la bacchetta nelle mani di Angius è una bacchetta magica da Mago Merlino, tanto ci mostra l’andamento del fascino muliebre di Mélisande travolgere tutto e tutti gli uomini dell’opera con il suo enigma e abbandono. Mélisande è la perfetta rappresentazione dell’eterno femminino in epoca riproduttiva. Lo sente Gulaud che s’innamora del suo mistero (e della donna che lo veicola), lo sente Pelléas, che s’innamora della sua fertilità e matassa inestricabile ma generosa, lo sente il vecchio re di Allemonde, Arkél, di cui non riesco a non riportare la stupenda affermazione nella scena II dell’atto IV: “Finora t'ho abbracciata solo una volta, il giorno della tua venuta; eppure i vecchi han bisogno talvolta di toccare con le labbra la fronte d'una donna o la guancia d'un bimbo, per credere ancora alla freschezza della vita e allontanare un attimo le minacce della morte. Hai paura delle mie vecchie labbra?”
La costruzione dell’esperienza di pubblico è stata guidata con grande classe dalla coppia registica d'oltreoceano. Scenografie, luci e costumi divengono il collante di un fluido magma drammaturgico alimentato da uno scoppiettare di eruzioni, ove musica e voci sono l'incandescente alternato e complementare.
Mélisande è eterea ed eroica, la sua missione inconscia e controversa di portare amore e vita in un mondo di uomini in competizione tra loro anche se della stessa famiglia è destinata al fallimento personale: tutti innamorati di lei e in crudo confronto, il sangue scorrerà, ma lei compirà il suo destino filosofico e filogenetico e darà al mondo una bambina, che rappresenta la vita sottile, che prosegue oltre il tramonto della vita grossolana fallita, al di là della finestra…
Già il titolo fuorvia, perché Pelléas è portatore di uno solo (quello sensuale) dei 3 prototipi di amore tra uomo e donna che vengono destati dall’eterea femme fatale Mélisande. Vi è poi quello protettivo di Gulaud, marito, scopritore e intimo pigmalione, che porta la bellezza e il dissidio tra le mura del castello di famiglia (un disastro, quell’innesto…) e quello del vecchio re Arkél. Tutti gli uomini cioè sono travolti da quell’emblema di eterno femminino in fase riproduttiva e crollano nell’affettuoso senso di piacere del vecchio per la bellezza e vita della giovane donna, nel viscerale senso di possesso dell’uomo maturo (Gulaud), nel fresco e acerbo sentimento psichedelico (il più giovane Pelléas). Il tutto nella musica, e lo si capisce se ci si interroga sui propri effetti interiori.
Ecco perché Debussy continua a lavorare il suo capolavoro: sente che non coincide con l’ispirazione e scrive e riscrive, come se l’eterno femminino fosse presentabile più di così, senza lasciare che ciascuno lo completi a modo suo, chiedendosi che effetto gli fa: illusione di artista…!
Miracolo, d’artista.
Martedì 24 gennaio 2023
© Riproduzione riservata
1330 visualizzazioni