di Sergio Bevilacqua
A Palazzo dei Diamanti a Ferrara si è concluso il secondo capitolo di una terna di mostre dedicate al secolo d’oro dell’arte ferrarese estense, dopo quella del 23 su Lorenzo Costa ed Ercole de Roberti.
La Sociologia dell’Arte non indaga relazioni storiche tra tutti i fattori della società umana e l’arte: a ciò pensa la storia dell’arte anche come storia sociale, studiata da tanti in Accademia e Università, che ha come testo principale “Storia sociale dell’arte” di Arnold Hauser (1951). Verificare nella storia le relazioni e le reciprocità tra fattori estetici e fattori socioeconomici, di relazione tra struttura economica e sovrastruttura culturale, come l’impianto filosofico marxiano, ma anche degli economisti liberali, suggerisce, è opera importante. Ciò non riguarda però un assunto vivissimo, oltre la lezione longhiana e hauseriana: perché l’ “arte vera” anche storica produce oggi catarsi? Quale ne è la vivissima attualità estetica?
Grazie alla storia dell’arte, formale longhiana e sociale hauseriana, possiamo analizzare le opere del passato e capirne l’importanza antropologica, cioè, possiamo comprendere l’intrinseco artistico come tale, rapportando le opere alla loro epoca, stabilire una serie di rilevanze comparative e di discendenze magistrali. Anche questo contribuisce alla loro allure, a creare dentro di noi effetti di fascinazione. Il primo e più elementare di questi effetti, riguarda la magistralità esecutiva, essendo tutti noi affascinati da come un essere simile a noi abbia saputo usare le sue doti umane, intellettuali e manuali, per produrre risultati di estrema qualità rappresentativa. Sempre ricordando che, fino al XIX secolo, la gran parte delle opere d’arte (e la prima delle arti è sempre la pittura…) arrivate a noi avevano un palese scopo funzionale: andare oltre ciò che la vita, caduca, mutevole, finita, assente è, per moltiplicarne la presenza in numerosi luoghi attraverso l’immagine. Per millenni questo è stato lo scopo, la funzione del disegno e della pittura e nessun’altra cosa serviva meglio i sensi.
Poi è arrivata la fotografia, e il mezzo secolo dal 1850 al 1900 per la pittura è stato di ricerca di altro specifico, ben distante dal gigantesco scenario precedente, ove le era affidata la memoria e la logistica dell’immagine, distratta dal suo oggetto di rappresentazione, biologico, geografico e materiale.
Studiare la vicenda umana della pittura, dalle forme più antiche a oggi, è ispezionare un esorcismo dell’uomo rispetto alla sua naturale limitazione di tempo e spazio: è la pittura che, fino al 1900, regala all’uomo il perdurare e il diffondere. Oltre il XIX secolo, con l’avvento della fotografia, la pittura innesca invece un altro dialogo con l’umano, quello con l’immaginario. La magistralità con cui si muove la mano è sempre affascinante e mantiene un suo campo prezioso, ma nulla ha più a che vedere con la funzione gigantesca detenuta dalla pittura prima della fotografia.
Qual è, allora, la funzione contemporanea della grande arte pittorica del passato, se quella allora aveva la funzione di riprodurre la realtà per superare la caducità della vita e la geografia? Oggi non c’è più l’incantesimo dell’infrazione di tempo e spazio, che solo la pittura poteva attuare ai suoi tempi: esso è affidato alla fotografia, e solo marginalmente ormai la pittura gli corrisponde. Il suo oggetto, l’esorcismo della limitazione di tempo e spazio, è passato dalla dimensione reale, sensoriale, a quella immaginaria, fantastica, dell’umano, con un radicale cambio di rilevanza funzionale.
È qui che la sociologia dell’arte cerca la sua sostanza, e la trova anche nella lettura diacronica, che non è quella storica, ma il suo semplice supporto cronologico. Mentre la storia cerca il senso nel momento, la sociologia cerca il momento nel senso: questa inusuale torsione intellettuale è la chiave della vera modernità, è il passaggio all’emersione dell’Immaginario attraverso la sua rappresentazione, perché tutto quanto il Reale poteva dare è già divenuto patrimonio del Simbolico tramite la camera oscura e poi il digitale.
Ed ecco che un fenomeno come il Rinascimento ferrarese acquisisce tutt’altra rilevanza rispetto a quella puramente storica.
Malgrado le continue citazioni scolastiche al provvido lavoro di Roberto Longhi sulla storia dell’arte, lo sforzo di presentare questo mezzo secolo di pittura rinascimentale ferrarese per sottolinearne la vetusta valenza, non rivela solo ciò che pare cercare, ma molto di più.
La cura, la precisione, la caparbietà con cui si presentano soprattutto quattro autori del Cinquecento estense e ferrarese in particolare (Mazzolino, Ortolano, Garofalo e Dosso) per farne un modello di qualità storica di uno spazio-tempo, diventa invece qualcosa che svela anche altri valori, straordinariamente validi per il fruitore contemporaneo. E così, io dico che non è il valore storico estetico, alla Longhi, e nemmeno quello socio storico alla Hauser che ci sorprendono in questa mostra. La declinazione della più celebrata forma rinascimentale, da Raffaello a Leonardo, da Giorgione a Bellini, da Michelangelo a Botticelli, da Piero della Francesca ad Antonello da Messina, da Mantegna a Giulio Romano, mostra nei ferraresi in esposizione non solo aspetti di qualità formale, ma anche inusuali approfondimenti di carattere immaginario, che consentono altri apprezzamenti oltre il viaggio erudito.
Lo spessore psicologico di diverse opere di Dosso ci mostrano prima di Caravaggio un realismo sorprendente nel ritratto, che rifugge dalle tentazioni angelicate, e ci trasporta catarticamente nei sentimenti popolari di un’epoca lontana, sentimenti tutti diversi dal maquillage della memoria tipico della pittura coeva che è spesso celebrativa. Lo scavare nelle manifestazioni del pregevole rinascimento ferrarese fa emergere così un’arte diffusa di grande valenza proiettiva per il fruitore contemporaneo, che si trova, in Dosso, nelle condizioni di riconoscere i sentimenti del tempo e di rapportarli ai suoi, ottenendo effetti in alcuni casi prossimi alla sindrome di Stendhal. La rete rizomatica, diffusa, del Rinascimento in Italia, trova in Mazzolino dei nodi di sintesi e anche una singolare discontinuità stilistica. Ortolano ci sorprende coi suoi chiaroscuri anticipatori, luce dunque rispetto alla cura del disegno che domina il XVI secolo. E Garofalo fa notare la proiezione nella natura del suo Uomo rinascimentale, accentuando la lezione degli sfondi di Giorgione, con l’aiuto di suggestioni luminose correggesche…
Ogni citazione sopra è un’occasione di catarsi, all’interno di quella mitologia del Rinascimento italiano che impressiona gli amanti dell’arte di tutto il mondo.
Mercoledì 19 febbraio 2025
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