di Sergio Bevilacqua
Perché “Miracolo a... Torino”? A molti sarà balenato nella mente un riferimento nemmeno troppo criptico al film “Miracolo a Milano” (1951), frutto di un’epoca costellata di felici esiti della cultura italiana del primissimo dopoguerra. In quel tempo, in Italia, vigorosi contributi provenivano un poco da tutte le arti e, tra questi, la settima arte, il cinema, era in prima fila a sospingere le vele dell’immaginario italiano. Così Cesare Zavattini incontra Antonio de Curtis, la trasfigurazione come Totò del leggendario Charlot nel contesto allora vulcanico del terroir italico, e fa germogliare un romanzo (Totò il buono) che diventerà film di rara profondità e maestria con l’ispirazione del regista Vittorio De Sica in “Miracolo a Milano”. Biciclette volanti sulle guglie del Duomo per eccellenza, ispirarono tutti, fino a Spielberg che ne fa in “E. T.” (1982) un motore drammaturgico dell’extraterrestre (che è in noi…).
Collegamento allora quasi spontaneo per chi vede nella sublime iniziativa impresariale del Teatro Regio di Torino su Manon Lescaut (la scrivo alla maniera pucciniana, perché il centenario con le sue implicazioni anche finanziarie, è suo, non di Auber o Massenet…), un esempio articolato di grande visione estetica che è una e trina, come si addice ai canoni più elevati della trascendenza nostrana. L’impresariato del sovrintendente del Regio di Torino Mathieu Jouvin come arte? Sempre, quando il pensiero e la visione prendono la via dell’interpretazione del momento e, dunque, dello “Spirito del Mondo”. Questo weltgeist sociologico è fatto, poi, oggi, di eterno femminino (Ewigweibliche, nel Faust di Goethe), così vivo e presente, proprio come quelle biciclette volanti, che attraversano trent’anni da “Miracolo a Milano” fino a “E. T.” e settanta fino ai giorni nostri. Allora ecco la seconda giovinezza del personaggio che almeno due secoli di drammaturgia varia hanno identificato tra i profili paradigmatici del femminile e che ritorna oggi a incantare: Manon Lescaut, personaggio del controverso abate Prévost nella sua “Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut”. Perché non c’è Manon senza Des Grieux. Per capire, occorre ricordare chi fu rapito dal romanzo di metà settecento di questo gesuita-negato e benedettino-sempre, anche contro la Chiesa, che poi lo riaccoglie con pazienza: almeno due nomi fanno scalpore e sono quelli di Alessandro Dumas figlio, che ne trae ispirazione per il suo “La Dame aux camélias”, che diviene in Verdi “La Traviata” e, alla fine del 1700, addirittura la pecora più nera della letteratura francese, quel marchese D.A.F.de Sade che non poteva non godere dei disastri di quest’anima controversa e persa che travolge il povero De Grieux in pieno delirio per la di lei femminile imprendibilità e sfuggevolezza di natura.
Balzana e capricciosa, in moderna e continua straniante altalena tra amore e benessere materiale, come accade anche oggi a tante donne sentimentali che si lasciano affascinare dalla società dei consumi e dei segni di status, la Manon di Prévost (e anche di Puccini, Massenet e Auber, in ordine cronologico inverso) non è prostituta dichiarata come la verdiana Violetta (Marguerite in Dumas) Traviata in Verdi, non si schiera definitivamente, e questa incongruenza le costa la vita: non mercenaria, non amorosa il suo destino è la morte, ma una morte ben diversa da quella di chi ha abbandonato del tutto la retta via… Violetta traviata muore in un letto sontuoso con il deserto nel cuore, Manon invece muore in un vero deserto, con un sontuoso sentimento nel cuore.
Nell’eroico trittico operistico (Puccini 1893, Massenet 1884 e Auber 1856) allestito dal Regio di Torino quest’anno, ciò accomuna le tre visioni, comunque un poco differenti, del personaggio di Manon Lescaut. Il grande progetto “Manon Manon Manon” è affidato alla regia di Arnaud Bernard, uno dei migliori registi operistici contemporanei, di cui ho riconosciuto oggi a più riprese la grande magistralità nel Nabucco all’Arena di Verona per il 99° festival, 3 anni fa, in Adelaide di Borgogna l’anno scorso al Rossini Opera Festival e ne “La Traviata” a Trieste quest’anno.
Oltre al comune riferimento letterario, il collante che Bernard propone per le tre Manon è il cinema francese del ‘900, su cui non mi dilungo (l’hanno già fatto altri) ma che è oculatamente scelto per valorizzare l’aspetto video nella dialettica odierna nel teatro musicale tra gli occhi e le orecchie. L’idea registica non è solo efficacissima e ottimamente realizzata, ma è anche un’apoteosi consolidata dei nuovi principi di scenografia, che vedono sempre più la musica circondata dalle immagini. Il triplo marriage è davvero ben riuscito e trova la sua magia in Massenet con l’accoppiata Manon-Brigitte (Bardot) ove live e video scorrono l’uno nell’altro come guanti su mani. Ma c’è dell’altro e voglio dirlo subito: in primis, il ruolo nel mondo dell’arte che Torino è riuscita a consolidare anche riguardo al cinema, con l’importante Museo presso la Mole Antonelliana e la sua vicinanza al mondo francese; poi, il fatto che la prima assoluta di Manon Lescaut (1893) fu proprio al vecchio Regio di Torino e che la capitale sabauda era dunque il luogo migliore per celebrare con Manon il centenario della morte del grande lucchese.
Inevitabile, di fronte a questa ricchissima gamma di valori torinesi, ricordare la grande bellezza del nuovo teatro cittadino realizzato negli anni 70, erede del più bel teatro d’Europa, copiato dagli architetti del Teatro alla Scala di Milano nei tardi anni del decennio 1770, e poi andato a fuoco nel 1936. Il “nuovo” Regio gioca tutto sul rosso e ci dona, grazie all’attenzione progressiva delle varie amministrazioni succedutesi, un’acustica meravigliosa e anche una vista di grande qualità un poco da tutti i punti della vasta platea scalare.
Pur senza dimenticare l’importanza della struttura architettonica ospite, della sua gloriosa storia plurisecolare d’istituzione e fucina culturale, ritorniamo a ciò che la ha onorata con questo progetto, che ha dell’incredibile: la messinscena di ben tre Manon differenti. Mai nella storia un confronto simile è stato possibile. Sembra la realizzazione del segnale di pericolo emesso da Marco Praga quando, nel 1890, fece notare a Puccini che il progetto ancora incompiuto di Manon Lescaut avrebbe dovuto affrontare la fortunata opera di Massenet. E Puccini rispose: «Lui la sentirà alla francese, con cipria e i minuetti. Io la sentirò all'italiana, con passione disperata».
E così è stato anche oggi, 135 anni dopo: i profumi forti delle passioni italo-pucciniane si sono confrontati con quelli della cipria di Massenet e ancor più di Auber.
E pure De Sica, con cui abbiamo esordito, è stato coinvolto dalla donna più contraddittoria della storia operistica, fino a realizzare nel 1940 un film con la sua storia. Perché allora non è stata utilizzata l’opera cinematografica di questo italiano? Una domanda alla quale Bernard e Mathieu hanno di sicuro una risposta…
Intanto, ma anche qui non mi soffermo e confermo ciò che la gran parte della critica ha affermato, gli spettacoli che ho fruito, Puccini il 12 ottobre, Massenet il 13 ottobre e Auber il 21 ottobre, erano di grandissima qualità musicale di voci e orchestra, con direzioni impeccabili e ben orientate nello scandire le differenze tra le tre interpretazioni. Manon Manon Manon: onore, onore, onore.
Ora però noi vogliamo fare un passo avanti, e portare la sinestesia omniparnasiana dell’opera lirica verso un senso che là non viene praticato: l’olfatto. Qual è il profumo di Manon? Dopo questo eccezionale approfondimento operistico del Regio di Torino, e più di così è letteralmente impossibile, lo chiediamo a una brava profumiera di tradizione plurigenerazionale, Cristina Bissoli di Mantova, “profumiera d’essai”, amante del personaggio di Manon Lescaut e figlia delle finezze della corte gonzaghesca. Cristina ci dice: “Le fragranze che m’ispirano sono legate a una personale selezione nel mondo dei profumi di nicchia. Manon… una donna in lotta con sé stessa... Inizialmente la fragilità di una giovane fanciulla, e abbinerei una candida rosa tea e fiori d’arancio che celebrano la purezza e il candore... Addentrandoci nel cuore dell’opera il profumo è una ribelle e corposa rosa turca a ispirarmi, sontuosa e potente, con un finale drammatico di frutti rossi e languidi legni. Se qualcuna si sente Manon, venga da me, che sono anche Manon, e indicherò sulla vostra pelle quali dosaggi sono più indicati a rappresentare e descrivere le delicate sfumature e sfaccettature della preziosa essenza del personaggio Manon sopra il vostro corpo...”
Una proposta per concludere: ci fu un duello sulla successiva opera pucciniana, Bohème, tra Puccini e Leoncavallo, dopo una certa collaborazione solo letteraria promossa dal solito Ricordi sul faticosissimo libretto di Manon, prima che Leoncavallo divenisse affermato operista con “Pagliacci”. Leoncavallo, uscito con la sua Bohème per secondo nel 1897 contro la omonima opera di Puccini nel 1896, fu distrutto dal lucchese, che iniziò addirittura a canzonarlo col soprannome di “Leonronzino”. Anche Bohème di Puccini ebbe la sua Prima al Regio di Torino… Che bello sarebbe vederle insieme, le due Bohème, entrambe tratte da Henri Murger, com’è stato per Manon…
E scoprire qual è il vero profumo di Mimì, e magari anche quello di Musetta...
Martedì 12 novembre 2024
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