di Gianluca Valpondi
Ciao Mirko. Il 18 maggio ripartono le sante messe cum populo: una vittoria di tutti o di qualcuno (magari contro qualcun altro)? Al netto, chi ci guadagna e chi ci perde?
Credo che sia una vittoria di tutti; credo che siamo arrivati a conquistarci un ritorno alla piena applicabilità del diritto costituzionale alla libertà religiosa per tutti e quindi anche per noi cattolici, col ritorno alle messe cum populo, sia una vittoria di tutti noi. È stato frutto di un impegno, abbiamo visto una forte azione di sensibilizzazione e mobilitazione come popolo cristiano, come Conferenza episcopale italiana, le parole del Papa sono state significative e importanti oltremodo. E abbiamo visto un’azione da parte del governo che, se pur con ritardi, se pur con modalità non adeguate, poi è arrivata a consentire a tutti, nel giorno in cui ricorderemo il centenario della nascita di san Giovanni Paolo II a Wadowice, di poter tornare alla messa con i fedeli. Dev’essere un momento di festa; abbiamo detto, e ho ripetuto in più occasioni, che non dobbiamo lasciaci trascinare e guidare dalle polemiche; dobbiamo cercare di farci guidare invece dalla gioia e dalla letizia di poter riprendere la vita religiosa in tutte le sue dimensioni: abbiamo la partecipazione ai funerali con un massimo di 15 persone (speriamo che questo limite venga tolto al più presto); abbiamo le messe con il popolo con un protocollo specifico, semplice, chiaro e praticabile; abbiamo poi la riapertura dei cimiteri, un’altra cosa estremamente importante. Quindi credo che non dobbiamo farci dominare dalle polemiche, ma dalla letizia e dal gusto di poter tornare a vivere in pienezza la nostra libertà religiosa. Al netto di quello che è successo, credo che ci guadagniamo tutti. Chi ci perde è chi vuol trovare sempre la polemica strumentale in ogni situazione. Credo che queste persone non ci guadagnino nulla e gli venga tolto del terreno sotto i piedi per poter strumentalmente attaccare la chiesa, attaccare il papa, attaccare le istituzioni appunto espressione della vita civile della chiesa che si son mosse con la giusta intelligenza e anche la giusta pragmaticità. In merito a questo quindi, credo che l’adozione del protocollo per le messe cum populo e la ripartenza delle stesse il 18 di maggio abbia tolto dagli elementi oggetto di polemiche sterili ogni occasione di ulteriori polemiche che facevano male al popolo cattolico e al Paese intero.
Mirko De Carli, consigliere nazionale Anci, consigliere comunale a Riolo Terme (Ra), coordinatore del Popolo della Famiglia per l'alta Italia |
Ci sarà più raccoglimento a messa e subito dopo la messa? Meno dispersione, meno chiacchiericcio? O ci sarà più tristezza, meno vivacità, più rigidità, meno spontaneità?
Mah, sicuramente spero e auspico che ci sia una maggiore partecipazione. Purtroppo sappiamo che la grande difficoltà della vita delle nostre parrocchie è la partecipazione attiva dei fedeli alle messe e alle attività parrocchiali, infrasettimana ma anche la domenica. Quindi l’auspicio è che appunto si riesca ad avere una maggiore partecipazione dei fedeli, e magari di persone che hanno scoperto il bisogno della fede e hanno deciso di cominciare a frequentare la messa e la parrocchia. Seconda cosa, io credo che sicuramente ci sarà il desiderio di avere maggiore raccoglimento, e sopratutto nelle prime settimane ci sarà un’attenzione a cercare di rispettare quelle che sono le regole previste dal protocollo. Dobbiamo aiutarci tutti. La Cei fa la sua parte aiutando anche economicamente le diocesi per l’attività e le spese di sanificazione e per tutto quello che è il materiale, i dispositivi di protezione individuale da utilizzare, la riorganizzazione anche delle attività parrocchiali col distanziamento fisico; ci sarà l’attività dei volontari in parrocchia e quindi invito tanti che possono farlo a dare una mano per il rispetto delle regole previste nel protocollo. E soprattutto credo che ci sarà una partecipazione alle messe forse più attenta e più rigorosa. Tante volte abbiamo visto che le messe più che messe si sono rivelate troppo spesso anche come momenti di festa come tanti altri ne vediamo in giro; la messa sappiamo che è l’incontro con il corpo di Gesù, è un momento sacro, un momento importante, un momento di raccoglimento forte; e forse questo potrà far riflettere tanti sacerdoti e tante comunità a riscoprire un maggior raccoglimento. Mi rifaccio alle parole di Riccardo Muti, quando, in un’intervista rilasciata a Raffaella Carrà, ebbe a dire “tutte queste chitarre che vedo durante le messe ci portano più che a fare schitarrate a fare scatarrate”, che allontanano tante volte il raccoglimento necessario durante la messa; e si rifaceva a delle riflessioni preziose che Benedetto XVI fece rispetto a questo aspetto, all’importanza anche dell’organizzazione dei canti e dei passaggi liturgici della messa che aiutassero il raccoglimento spirituale. Spero che questa nuova modalità che dovremo assumere nel vivere la messa cum populo ci aiuti in tal senso.
Da quanto tempo non fai la comunione? Chi è per te Gesù? Cosa significa per te, esistenzialmente, il dogma della “presenza reale” di Gesù Cristo morto e risorto, vero Dio e vero uomo, nel pane e vino consacrati?
Ahimè, purtroppo non ricevo il corpo di Cristo da prima del lockdown, come penso la maggior parte di tutti noi. Gesù per me è una persona; io l’ho sempre detto: a me la cosa che mi ha sconvolto in senso positivo e mi ha fatto ritornare a riabbracciare la fede, quando avevo 18 anni - dopo che, avendola vissuta in famiglia, avevo abbracciato altre ideologie che ritenevo più concrete rispetto alla vita di fede cristiana - la sperimentai incontrando un sacerdote, che mi fece vedere con i suoi occhi, con la sua vita, che Gesù era una persona, ed era una persona che potevi incontrare, potevi abbracciare; e che la vita che ti proponeva Gesù era la vita più ragionevole che ci fosse, perché era capace di spiegarti ogni dimensione del tuo vissuto dandoti delle ragioni che erano vivibili. Questo mi ha sconvolto la vita, perché io cercavo sempre un pensiero, nella mia quotidianità, che spiegasse quello che era la mia vita; e non avevo ancora incontrato nessuno, come Cristo, che era capace di dare un senso ad ogni dimensione del mio vissuto quotidiano; era capace di dare ragione di quello che vivevo, di quello che sceglievo e di quello che sentivo. Per cui è diventato un compagno di viaggio, con cui parlare, con cui dialogare, con cui litigare, con cui basticciare, con cui confrontarsi durante la giornata. E questo è ancora oggi, perché è l’unico compagno di vita, è capace di volermi bene con tutti i miei limiti e con tutti i miei errori e di servirsi in maniera sempre utile e sempre buona dei talenti che mi ha donato lui stesso. Il bisogno dell’eucarestia - l’ho detto in un intervento pubblico durante il lockdown – era proprio il bisogno di incontrarlo, riceverlo dentro di me col suo corpo, era come il bisogno incredibile di rincontrare lui, andare a vedere il tabernacolo e pregare davanti al tabernacolo era proprio l’urgenza di poter vivere questo rapporto quotidiano e carnale con lui. Se Cristo non fosse carne, se Dio non si fosse incarnato, io non avrei vissuto questa dimensione di vita religiosa che ho vissuto in questi anni. Per me è tutta lì la bellezza e l’unicità del fatto cristiano, che mi ha rapito in senso buono e mi ha portato a vivere una vita di fede, innestata nella realtà e nelle opere che servo ogni giorno - dalla politica al lavoro, alla famiglia, agli affetti, alle amicizie. Questa è la dimensione che a me interessa, la dimensione che vivo, ed è la forza di una fede che illumina l’uso della mia ragione nelle attività che svolgo durante la mia vita. Penso che sia questa la bellezza. A me ha sempre affascinato il pensiero e la riflessione dell’allora cardinal Ratzinger, quando spiegava appunto che non c’è cosa più ragionevole della vita vissuta con fede e che la fede è lo strumento con cui l’uomo allarga l’uso della ragione. Io ho sempre rifiutato una fede vissuta come dogma, ho sempre rifiutato una fede vissuta come misticismo astratto; mi ha sempre affascinato la fede invece vissuta come presenza concreta nella mia vita, rintracciabile con fatti, con date, con numeri, con elementi oggettivi, non soggettivi, e mi ha sempre affascinato il fatto di riuscire a confrontarmi con chi non ha fede attraverso appunto la fede, che mi dava elementi più ragionevoli di chi non aveva la fede. Mi colpì di don Giussani quando disse a chi non credeva o a chi lo contestava “se trovate qualcosa di più ragionevole nella vostra vita di quello che vi dice Gesù Cristo, venite e ditemelo e io vi seguirò” e poi potè dire “in tanti anni della mia vita nessuno è mai venuto a dirmelo”. Ecco, questo è quello che io vivo e sento su di me rispetto alla vita di fede personale, da peccatore, da ultimo banco delle messe, e da pessimo frequentatore parrocchiale quale sono.
In tempo di celebrazioni liturgiche “virtuali”, papa Francesco ci ha messo in guardia dalla gnosi, da certo pseudocristianesimo disincarnato. Il popolo di Dio ha fame e sete del corpo e sangue di Cristo? E che vuol dire questo? È una “metafora”, qualcosa che, letteralmente, “porta al di là, oltre”? È “simbolo”, non umano ma divino? È anche di più?
Io credo che il Papa ci abbia guidato e illuminato in questo periodo di grande difficoltà e di grande sofferenza anche nel vivere la vita di fede nella nostra quotidianità. Il Papa ci ha invitato appunto a non perder la dimensione carnale, concreta della vita cristiana, a non tradurla appunto in uno pseudocristianesimo disincarnato, perché non possiamo pensare che l’adempiere al bisogno di ricevere il corpo di Cristo lo puoi espletare guardando la diretta facebook di una messa comodo sul divano. La messa è impegno, la messa è sacrifico, la messa è prendere del tempo, la messa è ricevere prima di tutto carnalmente, fisicamente, materialmente il corpo di Gesù dentro di te; senza questo non si vive l’esperienza della santa messa e dell’eucarestia. È chiaro che dobbiamo cercare di riscoprire il valore di tutto questo, di rifarlo nostro, e di risentire la fame e la sete dentro di noi di questa roba qua. Bisogna riviverla; credo che questo periodo di astinenza dall’eucarestia, questo periodo anche di creatività forte, vivace che i nostri parroci hanno avuto nel cercare di essere vicini ai loro fedeli, di riscoperta del senso religioso di tanti che lo avevano abbandonato, perso, nel loro cammino di vita, possa essere stata un’opportunità da non sprecare ora per farla ricadere a terra, mettere radici solide e farla diventare un’esperienza carnale che possa cambiare realmente la vita di ognuno di noi. L’eucarestia non è solo un simbolo. Io non sarei cristiano per un simbolo; come ho sempre detto, le etichette non mi piacciono in politica, e tanto meno nella vita di fede. L’eucarestia è un corpo, è una persona, è una vita, che tu ricevi; come quando ti innamori con la tua compagna e ti sposi, non sposi un’idea, non sposi un simbolo, sposi una persona in carne e ossa con tutto quello che ne consegue. E quindi questo è l’eucarestia, questo è la santa messa, e se togliamo questo elemento dall’eucarestia e dalla santa messa, parlo per me, non avrebbe alcun senso essere cristiani e fare una vita di fede cristiana come invece è assolutamente ragionevole e di una bellezza unica farla.
Essere insieme a Messa, essere insieme come popolo, pregare insieme. Cosa significa il legame coi pastori? È la Tradizione che ci lega a Cristo? La comunità? Anche di più?
Il legame coi pastori è fondamentale. Il paradigma che lo spiega perfettamente è quello della parabola del pastore con il gregge, cioè Gesù che si paragona al pastore con il gregge. Noi che siamo pecore, nel senso di obbedienza fedele al padre, al pastore, non in senso di obbedienza cieca e vuota, abbiamo bisogno di qualcuno che ci guidi, abbiamo bisogno di una guida e di una guida sicura, per cui il rapporto col pastore è fondamentale, è imprescindibile; non esiste la fede autonoma o autodeterminata, dove ci diamo da soli le risposte o la guida. Il pastore è colui che – me lo insegnò Aldo Brandirali, grande politico e grande uomo cresciuto nel suo percorso di conversione con don Giussani, dicendo appunto che da don Giussani non aveva mai ricevuto correzioni, aveva ricevuto solamente l’abbraccio nel momento dell’errore e proprio la testimonianza di una vita diversa che si poteva fare rispetto agli errori che lui commetteva. Quindi il pastore non è colui che ti corregge, il pastore è colui che ti testimonia un modo più bello, più ragionevole, più intenso e più vero di vivere che tu ancora non hai sperimentato per cui ancora sbagli, questo è il pastore. E oggi ne abbiamo bisogno di pastori. In questo periodo in tanti hanno preferito attaccare i loro pastori, contestare la loro chiesa, perché era più facile, perché non si sono voluti calare immedesimandosi con le responsabilità e le fatiche che i nostri pastori hanno attraversato nel vivere un momento così difficile come il lockdown per la pandemia da covid-19. Io ho cercato di porre delle questioni dentro ad un abbraccio fraterno ai nostri pastori, dentro un dialogo continuo e costante coi nostri pastori, e riconoscendo ai nostri pastori il loro ruolo di guida spirituale a cui rivolgersi, come ti rivolgi a un padre, a cui obbedisci ragionevolmente, anche, se necessario, a volte discutendo o litigando. E questo ridà appunto la necessaria e fondamentale priorità del vivere l’esperienza di fede in quella dimensione imprescindibile che è quella comunitaria. Non si può vivere la fede da soli, ma la si può vivere solo nell’abbraccio con altre donne e uomini che anelano lo stesso bisogno di infinito che porti tu nel tuo cuore.
Venerdì 15 maggio 2020
© Riproduzione riservata
1413 visualizzazioni