Cesare Beccaria e il dibattito sulla pena di morte

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Questi e tanti altri gli argomenti trattati in questo blog che si presenta con un carattere di novità sia culturale che didattica: la verifica scientifica.

Danila Zappalà

Danila Zappalà
Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Urbino, ha frequentato un Master di specializzazione di 2° livello in "Scienze Criminologico - Forensi" presso l’Università "La Sapienza" di Roma.
Conseguito il Diploma di Master con Lode e Pubblicazione della Tesi, ha fondato nel 2007 a Siracusa il Centro Studi Scienze Criminali di cui è attualmente Presidente. Tiene Corsi di Criminologia e Psicopatologia Forense, Conferenze e Seminari per le Forze dell’Ordine e per tutte le altre categorie professionali.
Da sempre appassionata di Astronomia è attualmente una Divulgatrice Scientifica che collabora con varie testate giornalistiche scrivendo per Rubriche di Criminologia e Scienze. Tiene Corsi di Astronomia, Conferenze e Seminari di Scienze ed è autrice di numerosi saggi ed articoli di Criminologia, Scienze Forensi e Divulgazione Scientifica.
Con la BookSprint Edizioni ha pubblicato nel 2013 un libro dal titolo “La Formazione degli Operatori Territoriali nella Prevenzione del Crimine” in vendita nelle migliori librerie d’Italia e, con la stessa Casa Editrice, sono in corso di pubblicazione “Crime Scene. Manuale di Criminologia e Scienze Forensi ” e “Astronomia Bambini. Lezioni di astronomia per alunni di scuola elementare e media”.

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Giu 16

Cesare Beccaria e il dibattito sulla pena di morte

Si discute molto sull'opportunità di reintrodurre nel nostro ordinamento la pena di morte per i reati più gravi. Numerose sono le argomentazioni sia a favore che contro questa reintroduzione e il dibattito, che ebbe inizio con l'Opera di Cesare Beccaria, non è mai stato attuale come in questo periodo

di Danila Zappalà

cesare beccaria, pena di morte

Il marchese Beccaria (1738 – 1794), rappresentante della cultura illuministica lombarda, scrisse “Dei delitti e delle pene” a soli 26 anni. Nella breve opera pubblicata per la prima volta anonima nel 1764 a Livorno, si condannava, con moderna lungimiranza, la tortura, la pena di morte e in generale tutto il sistema giudiziario delle monarchie assolute. I concetti espressi in “Dei delitti e delle pene” si ritroveranno esposti nella “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”, votata dall’Assemblea costituente francese nel 1789.

“Chiunque leggerà questo scritto” scrive Cesare Beccaria (Cesare Beccaria Dei Delitti e Delle Pene, I CLASSICI, prefazione di Stefano Rodotà, a cura di Alberto Burgio, Universale Economica Feltrinelli, § XXXIX – Di un genere particolare di delitti - pag. 105; § XL – False idee di utilità – pag. 106 e ss; § XLI – Come si prevengono i delitti – pag. 108.), “accorgerassi che io ho omesso un genere di delitti che ha coperto l’Europa di sangue umano e che ha alzate quelle funeste cataste, ove servivano di alimento alle fiamme i vivi corpi umani, quand’era giocondo spettacolo e grata armonia per la cieca moltitudine l’udire i sordi confusi gemiti dei miseri che uscivano dai vortici di nero fumo, fumo di membra umane, fra lo stridere dell’ossa incarbonite e il friggersi delle viscere ancor palpitanti… Troppo lungo, e fuori del mio soggetto, sarebbe il provare come debba essere necessaria una perfetta uniformità di pensieri in uno Stato, contro l’esempio di molte nazioni…Tutto ciò deve credersi evidentemente provato e conforme ai veri interessi degli uomini, se v’è chi con riconosciuta autorità lo esercita… Una sorgente di errori e d’ingiustizie sono le false idee d’utilità che si formano i legislatori… Falsa idea di utilità è quella… che non ripara ai mali che col distruggere…Queste (leggi) peggiorano la condizione degli assaliti (cioè delle vittime di reato), migliorando quella degli assalitori, non scemano gli omicidi, ma li accrescono, perché è maggiore la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti… Quanto il timore è più solitario e domestico tanto è meno pericoloso a chi ne fa lo strumento della sua felicità; ma quanto è più pubblico ed agita una moltitudine più grande di uomini tanto è più facile che vi sia o l’imprudente, o il disperato, o l’audace accorto che faccia servire gli uomini al suo fine… ed il valore che gl’infelici danno alla propria esistenza si sminuisce a proporzione della miseria che soffrono. Questa è la cagione per cui le offese ne fanno nascere delle nuove, che l’odio è un sentimento più durevole dell’amore… È meglio prevenire i delitti che punirli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione… Ma i mezzi impiegati fin ora sono per lo più falsi ed opposti al fine proposto… La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi… Fate (perciò) che gli uomini le temano (le leggi), e temano esse sole. Il timor delle leggi è salutare, ma fatale e fecondo di delitti è quello (il timore) di uomo a uomo…”.

L’importanza storica, che non sarà mai sottolineata abbastanza, del famoso libro di Cesare Beccaria, risalente al 1764 appunto, sta proprio qui: Dei Delitti e Delle Pene è la prima opera che affronta seriamente il problema (Cesare Beccaria Dei Delitti e Delle Pene – Universale Economica Feltrinelli – I CLASSICI – prefazione di Stefano Rodotà, a cura di Alberto Burgio, § XXVIII – Della pena di morte – pag. 79 e ss.) e che produrrà un acceso dibattito che resisterà al tempo e alla storia e che si manterrà vivo e vegeto fino ai giorni nostri.

Occorre dire subito che il punto di partenza da cui muove Beccaria è la funzione intimidatrice della pena: “Il fine (della pena) non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali” (Cesare Beccaria Dei Delitti e Delle Pene, a cura di F. Venturi, Einaudi Editore, 1965 Torino, pag. 31). La domanda che ci si pone è quale sia la maggiore forza intimidatrice della pena di morte rispetto ad altre pene non capitali e la risposta di Cesare Beccaria deriva dal principio che “Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati… La certezza di un castigo,” continua Beccaria “benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani…” (Cesare Beccaria, Dei Delitti e Delle Pene, Universale Economica Feltrinelli – I CLASSICI – Prefazione a cura di Stefano Rodotà, a cura di Alberto Burgio, § XXVII – Dolcezza delle pene – pag. 78). Dunque, non è necessario che le pene siano crudeli, è necessario che esse siano certe. Il deterrente principale per non commettere un reato è quindi, secondo Beccaria, non tanto la severità della pena quanto la certezza di essere in qualche modo puniti. La pena di morte non è “né utile né necessaria” dice infatti e per l’influenza del dibattito che sulla pena di morte si svolse in quegli anni dopo la pubblicazione del suo libro, fu emanata la prima legge penale che abolì la pena di morte: la legge toscana del 1786. Essa, al § 51, dopo una serie di considerazioni tra cui emerge, ancora una volta, la funzione intimidatrice della pena, ma non per questo ne è trascurata la funzione emendatrice (cioè la correzione del reo, figlio anch’esso della società e dello Stato), dichiara di “abolire per sempre la pena di morte contro qualunque reo, sia presente sia contumace, ed ancorché confesso e convinto di qualsivoglia delitto dichiarato capitale dalle leggi fin qui promulgate, le quali vogliamo in questa parte cessate ed abolite” (Citazione tratta dal testo della Riforma della legislazione criminale toscana del 30 novembre 1786, dall’edizione a cura di F. Venturi di Dei Delitti e delle Pene, Einaudi Ed. , 1965 Torino, pag. 274, che contiene, oltre al celebre testo di Cesare Beccaria, documenti della sua straordinaria fortun'in Italia e in Europa nel settecento).

Ancora più clamoroso è stato poi, forse, l’eco che ebbe nella Russia di Caterina II il dibattito sulla pena di morte che seguì all’uscita del libro di Beccaria e nella cui celebre Istruzione si legge: “L’esperienza di tutti i secoli prova che la pena della morte non ha giammai resa migliore una nazione” e segue quest’espressione che sembra copiata dal libro di Beccaria “Se dunque io dimostro che nello stato ordinario della società la morte di un cittadino non è né utile né necessaria, avrò vinta la causa dell’umanità” (Citazione tratta dalla sesta questione della Istruzione, riportata in Riforma della legislazione criminale toscana del 30 novembre 1786, dall’opera Dei Delitti e Delle Pene di Cesare Beccaria, a cura di F. Venturi, Einaudi Ed. , 1965 Torino, pag. 646. Da notare che a pag. XXXV, nella prefazione del suo libro, F. Venturi parla di Caterina II come di una “plagiaria” fedele di Beccarla). Bisogna aggiungere, però, che nonostante il successo letterario del libro Dei Delitti e Delle Pene non solo la pena di morte non fu abolita nei paesi civili, ma la giustificazione di questa abolizione non era destinata a prevalere nella filosofia penale del tempo. Kant ed Hegel, i due maggiori filosofi del tempo, l’uno prima, l’altro dopo la Rivoluzione Francese, che scoppiò come tutti sanno con la famosa “presa della Bastiglia” nel 1789, sostennero che la pena di morte è addirittura doverosa. Kant, infatti, partendo dalla convinzione che la funzione della pena non è quella di prevenire i delitti ma semplicemente di rendere giustizia (Kant enuncia qui una Teoria Retributiva della pena), cioè di fare in modo che ci sia una rispondenza perfetta fra il reato commesso ed il castigo previsto, sostenne che la pena di morte è un imperativo categorico che lo Stato non può esimersi dall’applicare quando occorre. “Se egli ha ucciso, egli deve morire.” scrive Kant (Questo passo è tratto dalla seconda parte della Dottrina del diritto, dedicata al Diritto Pubblico, a pag. 522 dell’edizione di Immanuel Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET Edizioni, 1956 Torino). “Non vi è nessun surrogato, nessuna commutazione di pena, che possa soddisfare la giustizia. Non c’è nessun paragone possibile fra una vita, per quanto penosa, e la morte, e in conseguenza nessun altro compenso fra il delitto e la punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al criminale, spogliandola però d’ogni malizia che potrebbe, nella persona del paziente, rivoltare l’umanità…”.

Hegel si spinse anche oltre. Egli sostenne che il delinquente non solo deve essere punito con una pena corrispondente al delitto compiuto, ma che ha il diritto di essere punito con la morte perché solo questa punizione lo riscatta veramente. Hegel ha, però, la lealtà di riconoscere che il libro di Beccaria ebbe almeno l’effetto di ridurre il numero delle condanne a morte (questo riferimento a Beccaria si trova nel § 100 dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, 1954 LATERZA Edizioni, pag. 327. L’aggiunta a questo § 100 dice infatti: “… questo sforzo di Beccaria, di far abolire la pena di morte, produsse effetti vantaggiosi; se anche né Giuseppe II né i Francesi abbiano potuto riuscire alla totale abolizione di essa, si è, tuttavia, cominciato a riconoscere quali delitti sono punibili e quali no:”).

Sfortuna volle che mentre i più autorevoli filosofi del tempo continuavano a sostenere la legittimità della pena di morte, Robespierre, che sarebbe passato alla storia come il maggiore responsabile del terrore rivoluzionario francese, in un famoso discorso all’Assemblea Costituente tenuto nel maggio del 1791, ne promuoveva, invece, la sua abolizione. Il discorso di Robespierre merita di essere citato perché contiene una delle argomentazioni più persuasive contro la pena di morte. Egli sostenne innanzitutto che non è vero che la pena di morte è più intimidatrice delle altre pene e addusse l’esempio del Giappone: allora si credeva che le pene in Giappone fossero atroci e tuttavia il Giappone era considerato un Paese di criminali. Poi, confutò anche l’argomento fondato sul consenso delle genti e quello fondato sulla giustizia. Infine, addusse un argomento di cui Beccaria non fece menzione nel suo libro: l’irreversibilità degli errori giudiziari. Tutto il discorso di Robespierre, in sostanza, è ispirato al principio che la mitezza delle pene è prova di civiltà, mentre la crudeltà delle pene caratterizza i popoli barbari come accadeva in Giappone. Ad onor del vero, occorre, poi, ricordare che il dibattito intorno alla pena di morte non prese di mira soltanto la sua abolizione, ma anche la sua limitazione ai reati più gravi. Il grande passo compiuto a seguito di questo dibattito è consistito, infatti, nella diminuzione dei reati puniti con la pena di morte. Anche negli ordinamenti in cui la pena di morte è tuttora prevista, essa è inflitta, quasi esclusivamente, per il reato di omicidio premeditato. Oggi la maggior parte degli Stati che hanno conservato la pena di morte la eseguono con discrezione, cioè senza pubblicizzarne il supplizio che, anzi, si è cercato di ridurre il più possibile rendendo la morte stessa del reo meno dolorosa possibile. Naturalmente non è detto che ci si sia riusciti: basta leggere, infatti, i resoconti sulle tre forme di esecuzione più comuni, la ghigliottina francese, l’impiccagione inglese e la sedia elettrica negli Stati Uniti, per rendersene conto. Ad ogni modo essa è oramai sottratta agli sguardi dell’opinione pubblica, e ogni condanna a morte viene eseguita lontano dalle telecamere e da occhi “indiscreti”.

Sulla vergogna della pubblicità delle esecuzioni capitali, vorrei limitarmi a ricordare le invettive di Victor Hugo, il quale si batté sin dalla sua giovinezza contro la pena di morte. Egli scrive ne I Miserabili: “Il patibolo, quando è là, drizzato in alto, ha qualcosa di allucinante. Si può essere indifferenti verso la pena di morte e non pronunciarsi, non dire né sì né no, sino a che non si è visto una ghigliottina. Ma se se ne incontra una, la scossa è violenta e bisogna decidersi a prender partito pro o contro…”. Negli Scritti di Victor Hugo sulla pena di morte Hugo ricorda anche che a sedici anni vide una ladra che un boia marchiava con un ferro rovente: “…ho ancora nell’orecchio dopo più di quarant’anni, e avrò sempre nell’anima, lo spaventoso grido della donna. Era una ladra, ma da quel momento divenne per me una martire…” (Citazione tratta dal libro di Norberto Bobbio L’età dei diritti, Giulio Einaudi Editore, 1992 Torino, pag. 192).

L’Italia, dal canto suo, è stata uno dei primi Paesi ad abolire la pena di morte (1889 Codice Penale Zanardelli). La Costituzione del 1948 la escluse con l’eccezione dei reati di guerra. Dal 1994 anche questa eccezione è stata eliminata e, da allora, la posizione del nostro Paese, fortemente ancorata alla tradizione riferita dal Beccaria, è quella propria dell’Europa, la quale il 28 aprile 1983 ha adottato il Protocollo n. 6 integrativo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in forza del quale gli Stati aderenti si impegnano a non pronunciare più condanne a morte se non in caso di guerra. Essa costituisce per noi ragione di vanto rispetto a quei Paesi che ancora continuano ad applicare la pena di morte persino per i reati commessi dai minorenni o dagli incapaci. Certo, alcuni reati sono così gravi da far ritenere insufficiente qualunque pena, ma la gravità dei reati non giustifica la pena di morte perché, altrimenti, la stessa logica giustificherebbe anche la tortura e si ritornerebbe, inevitabilmente, ai metodi utilizzati dall’Inquisizione durante il Medio Evo.

Non c’è dubbio che da Cesare Beccaria in poi l’argomento fondamentale degli abolizionisti di tutto il mondo è stato quello della forza intimidatrice di questa pena.

“Da quando si è applicato allo studio della criminalità il metodo della ricerca positiva” scrive Norberto Bobbio (Norberto Bobbio L’età dei diritti, Giulio Einaudi Editore, 1992 Torino, pag. 197 e ss.) “sono state fatte ricerche empiriche sulla maggiore o minore deterrenza delle pene, confrontando i dati della criminalità in periodi e in luoghi con o senza pena di morte. Queste indagini…” continua Bobbio “facilitate negli Stati Uniti dal fatto che vi sono Stati in cui vige la pena di morte e altri in cui è stata abolita… ha permesso di studiare l’incidenza sulla criminalità paragonando il presente con il passato. Un esame molto accurato di questi studi mostra in realtà che nessuna di queste ricerche ha dato risultati del tutto persuasivi… Il lato debole dell’argomento che fonda la richiesta di abolire la pena di morte sulla minor forza intimidatrice dipende dal fatto che se si potesse dimostrare in modo inconfutabile che la morte ha, per lo meno in determinate situazioni, un potere di dissuasione maggiore di altre pene, dovrebbe esser mantenuta o ripristinata… Perciò ritengo che sia non dico un errore, ma un grande limite, fondare la tesi dell’abolizione solo sull’argomento utilitaristico… Gli abolizionisti si pongono dal punto di vista del criminale, gli anti-abolizionisti da quello delle vittime. Chi ha più ragione?”.

In un mondo sconvolto da guerre internazionali, dal diffondersi di atti terroristici sempre più crudeli, rassegnato a vivere sotto la minaccia dello sterminio atomico, il dibattito sulla pena di morte può sembrare un ozioso passatempo dei soliti dotti che non si rendono conto di come va il mondo. Tuttavia, la questione se questo dibattito sia moralmente e/o giuridicamente lecito è parte di noi, di tutti noi: della nostra storia, della nostra vita e soprattutto della nostra civiltà.

Ciò di cui si sta tuttora dibattendo in tutto il mondo è l’abolizione decisiva della pena di morte, che è ormai limitata, anche negli Stati che l’hanno mantenuta, a un numero sempre più ristretto di reati particolarmente gravi.

La pena di morte ha cessato ormai da tempo di essere la “regina delle pene” e questo grazie al decisivo contributo fornito dal Beccaria. Da Beccaria in poi, infatti, ciò che è stato messo in discussione è non solo se la pena di morte sia eticamente e giuridicamente lecita ma anche e soprattutto se sia davvero la maggiore e più efficace delle pene. In un paese come l’Italia che dopo la caduta del fascismo ha costituzionalizzato il divieto della pena di morte, le tradizionali dottrine antiabolizionalistiche sono certamente riemerse meno incisivamente che in Paesi come gli Stati Uniti o la Francia. Vi sono casi, infatti, in cui per un breve periodo la pena di morte è stata ripristinata in Stati che l’avevano da tempo abolita: tipico è proprio il caso dell’Italia durante il Fascismo.

“Non bisogna farsi troppe illusioni” scrive Bobbio (Norberto Bobbio L’età dei diritti Giulio Einaudi Editore, 1992 Torino, pag. 232 e ss.) che cito a conclusione di questo mio saggio, “Ma non bisogna neppure trascurare il cammino già fatto: un cammino enorme di cui non sempre siamo pienamente coscienti. Dalle origini delle società umane sino a un tempo così vicino a noi che possiamo chiamare «ieri», il contrassegno del potere è stato il diritto di vita e di morte… Dalla constatazione che violenza chiama violenza in una catena senza fine, traggo l’argomento più forte contro la pena capitale, forse l’unico per cui valga la pena di battersi: la salvezza dell’umanità, ora più che mai, dipende dall’interruzione di questa catena. Se non si rompe, potrebbe non essere lontano il giorno di una catastrofe senza precedenti… E allora bisogna cominciare. L’abolizione della pena di morte non è che un piccolo inizio…”.

“Volete prevenire i delitti?” scrive Cesare Beccaria (Cesare Beccaria, Dei Delitti e Delle pene, Universale Economica Feltrinelli, I CLASSICI, prefazione di Stefano Rodotà, a cura di Alberto Burgio, § XLII – Delle scienze – pag. 109 e ss.) “Fate che i lumi (cioè la conoscenza delle cose) accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di un illuminato. Le cognizioni (cioè la cultura) facilitando i paragoni degli oggetti e moltiplicandone i punti di vista, contrappongono molti sentimenti gli uni agli altri, che si modificano vicendevolmente, tanto più facilmente quanto si preveggono negli altri le medesime viste e le medesime resistenze… Chiunque riflette sulle storie (Cioè sull’esperienza delle generazioni passate, sulla storia.) …vi troverà più volte una generazione intera sacrificata alla felicità di quelle che le succedono nel luttuoso ma necessario passaggio dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della filosofia… I filosofi acquistano dei bisogni e degli interessi non conosciuti dai volgari…, ed acquistano l’abitudine di amare la verità per se stessa… Finalmente” scrive ancora Beccaria (Cesare Beccaria, Dei Delitti e Delle Pene, Universale Economica Feltrinelli, I CLASSICI, prefazione di Stefano Rodotà, a cura di Alberto Burgio, § XLV – Educazione – pag. 112), “il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione...”.

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