di Sergio Bevilacqua
Per me la Bohème è casa, vera casa…
Non solo il sottotetto da artisti che Puccini consapevolissimo disegna nell’immaginario “preparato” (già bohémien…) del librettista Luigi Illica moderato da Giuseppe Giacosa su intuizione secca di Ricordi… Non solo Momus, un locale crocevia di libertà economico-finanziarie, artistiche, culturali e di stile di vita archetipico quasi da antropologia culturale… Non solo le arie bellissime che sono state il mio vero esordio nell’opera… Non solo “quella” Parigi fin-de-siecle ove ribollivano insieme commedia e tragedia e i comportamenti potevano essere liberi ed espressivi viste le correnti incontrollabili delle avanguardie artistiche che da quasi mezzo secolo stranivano i borghesi, da Montmartre a Monparnasse, in una Ville Lumiere attraversata dalla luce artificiale, quella elettrica…
Ma questa epoca della Bohème pucciniana aveva trovato in noi adolescenti tra il 68 e il 77 un rispecchiamento speciale, e così, nei nostri sottotetti e Momus, noi saltellavamo tra Artur Rimbaud (Ma Bohème “Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate; e anche il mio cappotto diventava ideale; andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele; oh! quanti amori splendidi ho sognato!”) e Gregory Corso (Rapporto di campo. “Io vedo lo stesso che vedono gli uccelli Solo trasmettiamo diversamente Comunque sono fuori sul campo e dovreste che non è uno scherzo – sopra fioccano pallottole non sono vere, sono pallottole poetiche È la musa, chi altro? là fuori sulla banchina di tiro Ha con sé Pegaso …) con i quesiti, miei soprattutto, più Schaunard, della scienza del futuro e della poesia della parola, ov’erano altri del nostro gruppo, mentre altri ancora pensavano a bruciare “…un Faraon!”.
Con tali ascendenti, arricchiti poi di una vita passata a considerare le drammaturgie dell’esistenza, è bello, è interessante, è divertente, vedere come una giovane regista tratta questa ciclopica presenza della memoria e fantasia, magistrale nell’interpretazione di quel dionisiaco che attraversa l’umano, prima della sua storiografia. Ho visto tante bohème, e di più ne ho immaginate… E, benché Marialuisa Bafunno sia appena dopo i 30, non ci sono mai esperienze sufficienti per capire quest’opera, che è appunto un archetipo dell’umano. E quella di una giovane giovan-issima (obietteranno: proprio -issima, poi, non è un pò troppo?) m’ha incuriosito un dannato molt-issimo.
C’era di che. Vediamolo.
Allora, credo di aver detto già anche troppo e allora tiriamo le somme: l’interpretazione registica è stata proprio centrata, ne ho apprezzato la freschezza e la chiarezza. I 3 temi clou A. , B. , C. , sono stati sviluppati con precisione straordinaria, grazie a coreografie (penso alla parte più filosofica amorsacro-amorprofano nel terzo quadro, in cui le sovrapposizioni canore dei due sentimenti s’annodano con la scenografia e Marialuisa li scioglie magistralmente, come non ho mai visto fare: brava!). I quattro giovani bohémien risaltano perfettamente nelle loro specifiche caratteristiche, e così i loro rapporti con la realtà.
In cauda venenum? Ma no… diciamo che la zampata registica del Vecchio Rodolfo, mi ha lasciato un pò tiepido, ma non danneggia (nemmeno fa, però…), non è invasiva e scompare di fronte alla efficacia con cui la brava Bafunno dona un’attualizzazione giovanile dell’antropologia perenne della Bohème e del dionisiaco, onorando musica e libretto.
Lunedì 7 aprile 2025
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