di Silvia Tozzi
ROMA | Stefano Cucchi, il geometra morto quattro anni fa durante il ricovero all'ospedale Pertini di Roma e una settimana dopo il suo arresto per droga, non è morto per abbandono d'incapace, contestato a medici e infermieri del Pertini, ma per omicidio colposo. Per questo i pm nel loro atto d'appello alla sentenza di primo grado con cui la III Corte d'assise nel giugno scorso ha condannato per omicidio colposo (e non per abbandono d'incapace come chiesto) cinque dei sei medici imputati (un sesto medico fu condannato per falso ideologico), e assolto tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria, hanno chiesto di ripristinare l'originaria imputazione e di condannare per questo gli imputati. La famiglia, come è noto, ha raggiunto un accordo con il Pertini per il risarcimento dei danni, e quindi ha contestato solo la sentenza assolutoria per gli agenti.
L'APPELLO | Scrivono che «la Corte ha ritenuto che l'abbandono di persona incapace non si potesse configurare perché Cucchi non era in stato d'incapacità d'intendere e di volere, e perché l'elemento soggettivo in capo ai sanitari che lo avevano avuto in cura non era il dolo ma la colpa». Conclusioni non condivisibili per i pm, i quali sostengono come evidente il fatto che Cucchi si trovasse in uno stato d'incapacità di badare a se stesso «per essere costretto a letto dalla malattia e soprattutto per essere detenuto in un reparto di medicina protetta,equiparato ad un carcere, che ne impediva qualsiasi movimento e soprattutto gli impediva di scegliere i medici da cui farsi curare». Il reato di abbandono d'incapace, infine, per i pm deve essere contestato anche agli infermieri, «giacché gli stessi sono stati inspiegabilmente assolti soltanto sulla base di quanto ritenuto dai periti e cioè che non era nelle loro facoltà di sindacare le iniziative dei medici alle quali risultano essersi attenuti».
IL SUPERTESTIMONE | Per i pm fa testo quanto dichiarato da Samura Yaya, un detenuto del Gambia, che disse di aver visto e sentito il pestaggio di Cucchi avvenuto nelle celle di piazzale Clodio, ma che è stato ritenuto inattendibile dalla Corte. «Tutte le testimonianze raccolte, a differenza di quanto sostenuto dalla Corte - si legge nell'appello - confermano quanto riferito dal Samura in ordine al comportamento degli agenti che in seguito alle insistenti richieste del Cucchi lo colpivano con una spinta e dei calci, in modo da farlo cadere a terra e procurargli le lesioni che ne hanno determinato il ricovero».
I CARABINIERI | Si torna anche a parlare del fatto che Stefano potesse essere stato portato in carcere già pesto, dai carabinieri che lo avevano arrestato. «Tra le numerose persone escusse in udienza, quelle che riferiscono di avere appreso da Cucchi che erano stati i carabinieri ad averlo percosso sono sempre state smentite o comunque non confermate dai riscontri effettuati. Del resto non risulta nemmeno che gli imputati, agenti della Polizia penitenziaria che avevano preso in consegna dai carabinieri il detenuto, abbiano sentito l'esigenza, per esimersi da eventuali responsabilità, di sottoporre Cucchi a visita medica». La conclusione è la richiesta di condanna anche degli agenti assolti perché si ritiene «di tutta evidenza la scorrettezza grave che ha caratterizzato l'attività della Polizia penitenziaria nell'esercizio concreto della custodia dell'arrestato».
Domenica 27 ottobre 2013
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