di Sergio Bevilacqua
FESTIVAL VERDI 2019
NEL NABUCCO AL REGIO DI PARMA VOX CLAMANS IN… DESERTO!
A volte, il rischio di regie innovative sconfina nel forzoso. Due domande, al proposito, con relative risposte sul frequente fallimento delle regie non-filologiche.
Perché? La ricerca di sorprendere tenta di produrre elementi contemporanei, in modo magari fresco e giovanile, ma si scontra con la vera sostanza drammaturgica dell’opera: flessibile sì, variegata magari pure, spesso in Verdi addirittura balzana, ma così decantata e maturata nell’immaginario di milioni di fruitori del giorno d’oggi. Non dimentichiamo che l’opera è ripetizione accorata (non litania), che il melomane o anche il semplice fruitore, occasionale e avveduto, cerca nelle sfumature di differenza dello specifico spettacolo, lasciandosi guidare dall’udito (musica e canto) e dalla vista (teatro: la scenografia, i costumi, le luci). Mentre nell’udito vale il lavoro del direttore d’orchestra, che interpreta il pentagramma, nella vista vale il lavoro del regista, che interpreta il libretto.
Come si riconosce nel teatro musicale, genere a cui si ascrive il più grande spettacolo artistico della storia umana, l’Opera Lirica, lo sconfinamento della drammaturgia? Conoscendo il libretto, nel nostro caso il testo metaforico del Nabucco, rivendicazione di libertà e vita dell’anima, l’esercizio è quello di guardare senza ascoltare: conoscendolo, ripeto, se agite su una scenografia tradizionale, avrete modo di trovare un filo logico. E anche su una scenografia innovativa, se è azzeccata, e se ne sono viste per fortuna molte (anche quest’anno, I due Foscari, con un Leo Muscato decisamente outstanding). Qui, se vi tappate le orecchie, con capite niente di niente.
Allora ricapitoliamo. Viene dato a una coppia di premiatissimi nel loro campo, Ricci e Forte, l’incarico d’interpretare il Nabucco. Questi pescano alcuni temi dalla cronaca (fin qui tutto bene, cioè non male la parte del progetto creativo): lo fanno tutti quando c’è da reinterpretare. Forte costruisce quindi semiologie per le diverse parti dell’opera. Queste semiologie dovrebbero seguire un filo logico, perché altrimenti Video fa soffrire Cerebrum. Il modo giusto è di creare armonia tra i segni e spirito di successione. Qui questa regia crolla. Non è assolutamente la scelta di contenuti (ben venga l’attualità!) ma la clamorosa assenza di riflessione sul fruitore. Regia sbagliata nei fondamenti elementari: il loro maestro Luca Ronconi si rivolta nella tomba, lui che era così attento… Ma non finisce qui, purtroppo, e tutti sanno quanto io voglia bene al Regio: sono almeno tre anni che condivido i rischi nelle regie innovative (ci vuole ma si deve far meglio) che la gestione della fulgida Anna Maria Meo (ce ne fossero, come lei!) produce, e sono tre anni che dico che i registi vanno guidati da bravi fantini dell’istituzione teatrale, tanto più se sono cavalli di razza. Posso capire le difficoltà, con mostri sacri come Graham Vick o come Bob Wilson (l’anno scorso, un Trovatore assiderato…), seppure il Regio di Parma sia a sua volta un mostro sacro della lirica, ma farsi mettere nel sacco da Ricci non ci sta. C’è qualcosa che non va. Lo ripeto. Non è gusto, l’errore è qui la tecnica di regia del teatro musicale. Sono costernato, ma devo dirlo: se Ricci è bravo come dice il suo curriculum, stavolta s’è sbagliato. E… “Se sbaglio corrigetemi!”.
Per fortuna c’è la musica. E ci sono le voci. Ivan Campa è in piena padronanza e trova, da grande musicista, la strada per salvare capra e cavoli, la musica verdiana e l’interpretazione Ricciuta. Enkhbat domina il Nabucco. Magrì, Amoretti ed Hernandez riempiono la scena con validissime intonazioni e piena condivisione di ciò che accade. Il coro è gigantesco, ed effettua un caloroso bis sul “Va^ pensiero”.
A volte, la grande esperienza estetica emerge perché l’arte protesta e, se è arte (come è arte indiscutibile l’opera verdiana e il suo alfiere Nabucco), trova con orgoglio sofferenza e martirio la via dell’ascensione. La sera del 3 di ottobre ho capito che era il momento dell’esercizio che mio padre aveva insegnato a me bambino, da fare nei palchi della Scala e della Fenice e del Regio, e del Valli di Reggio Emilia allora Teatro Municipale: “Chiudi gli occhi e ascolta! Solo così capirai se la musica è grande”. Aveva dentro un bel pezzo di ‘800, papà, e con esso il vero modo di fruire l’opera: pomeridiano, non distratto ma libero, sociale sia nel commento che nel vedersi al foyer. Attenzione estrema alla parte sinfonica, alle romanze e un occhio alla messinscena.
Certo, il mondo era diverso, nell’800 e fino al 1950. I teatri erano molti, le repliche infinite, il biglietto molto meno costoso in rapporto, non essendoci all’epoca “pressione globale” di stranieri (La Fenice e La Scala docunt, ma ormai anche il Regio) su quanto di più italiano esista nell’arte, l’Opera Lirica.
Ed ecco che, dalla desertificazione teatrale dovuta alla povera regìa, le voci e il coro e l’orchestra e il direttore spiccano come la Vergine Maria nella cupola del Correggio in Duomo a Parma, forse la seconda ascensione più bella della storia dell’arte, dopo quella tizianesca ai Frari di Venezia. Vedete? Non mancano i riferimenti! Imparassero le regie dalle Assunzioni: quante, e quanto belle, col rispetto sacrale che meritano! E che merita la nostra fruizione.
Giovedì 10 ottobre 2019
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