di Guido Salvestroni
Nei correnti anni venti del terzo millennio vediamo vari ritorni al passato, non solo con i governissimi che purtroppo affliggono (anche) gli italiani, ma anche con una riesumazione della produzione nucleare dell’energia a scopi industriali e civili. Il tema ha riempito le cronache ai tempi dei referendum, dieci anni fa. Mettemmo la parola fine al nostro programma nucleare, che adesso si vorrebbe riattivare con la scusa di nuove tecnologie, le quali sono ancora inesistenti (come la fusione fredda) o irrilevanti, come l’uranio “povero” raffreddato a sodio liquido.
Il dibattito specialistico sarebbe lungo, e non esente da pregiudizi che anche gli scienziati a volte non riescono ad evitare. Voglio qui fare delle sintetiche considerazioni, semplificando dove potrò.
Anzitutto, la spinta verso un sistema di vita migliore che chiamiamo “ecologia” prevede di occuparsi di molti fattori inquinanti, che non sono solo legati all’energia ma a come utilizziamo le risorse naturali. I recenti summit puntano soprattutto sulla riduzione della tendenza al surriscaldamento, che è solo uno dei segnali, evidente perché riguarda tutto il pianeta. Tuttavia il problema non è solo la CO2, ma lo sono le polveri sottili, le plastiche nei mari, i residui metallici di lavorazioni rispetto alle quali le scorie nucleari pesano in fondo poco (sebbene siano praticamente ineliminabili).
Il politico, mediamente competente solo di comunicazione, o i presunti esperti che ci ritroviamo nei ministeri chiave, considerano che la produzione di energia sia il fattore determinante dei costi. Così viviamo la stagione in cui Cingolani, avendo in mano i media e una tendenza neonuclearistica di cui ignoro i motivi, allarma l’opinione pubblica con aumenti straordinari legati ai costi crescenti del gas naturale, specie di quello proveniente dalla Russia.
Il metano, come il petrolio, ha degli andamenti stagionali, legati tra l’altro alla maggior richiesta invernale. È facile vedere che (https://it.investing.com/commodities/natural-gas) l’andamento attuale non ha nulla di straordinario, cresce ma è ancora ben al di sotto dei prezzi raggiunti negli anni dal 2003 al 2009. L’altro fattore, quello del rincaro dei permessi di emissione di CO2 a livello europeo, è parte della strategia energetica “a favore della transizione green”. Appare come un chiaro controsenso, perché sembra dirci che l’energia verde (sole, vento, acqua e fonti analoghe – non altro) costa di più, mentre è ovvio che la transizione comporti un costo di investimento, ma che questo costo ammortizzato negli anni faccia sì che il costo al kWh sia invece ben più basso di tutte le fonti fossili.
La dimostrazione economica sarebbe lunga, ma mi pare doveroso qui un cenno sui costi del nucleare “di quarta generazione”. Quello attualmente possibile (centrali da circa 500 MW) prevede un investimento impiantistico (trascuriamo qui gli ingenti costi della ricerca, che invece va sempre supportata se ben diretta) di circa venti volte superiore al fotovoltaico, con durate degli impianti forse comparabili, ma con alti costi di manutenzione, e rischi di catastrofi naturali o per mano umana (errori, terrorismo e sabotaggi) ancora insopportabili.
Un altro svantaggio ignorato da media e politica è quello della flessibilità. Una combinazione sole-vento-acqua produce sempre nel tempo, gli eccessi comportano facili fermi – il fotovoltaico modula la corrente, l’eolico ferma delle turbine o stringe le pale, l’idroelettrico ha in sé l’accumulo di energia potenziale chiudendo i flussi. Una turbina a gas si accende e spegne in minuti o ore, secondo la dimensione. Un impianto nucleare richiede una settimana. Gli ultimi due per modulare hanno bisogno di inquinare col calore i nostri fiumi e mari.
Infine consideriamo che i prezzi dell’energia elettrica, la forma più nobile e facilmente utilizzabile (ad alta entalpia), variano molto nel mondo. Una buona panoramica ce la offre il sito https://www.globalpetrolprices.com/electricity_prices/, che considera il costo finale all’utente (cittadino o azienda).
Pensiamo ora alla nostra comune bolletta elettrica la quale, sebbene soggetta a una normalizzazione che non l’ha resa del tutto comprensibile ai più, ci dirà in sostanza che il costo del kWh medio italiano va oggi verso i 25 centesimi, ma che la “componente energia” pesa in media per non più di un terzo. Certo, il PUN (prezzo unico nazionale) oscilla molto nell’arco dei mesi, come ben documenta ad esempio il sito A2A (https://www.a2aenergia.eu/area_clienti/tariffe/clienti_non_domestici/energia_elettrica/PUN.html), e negli ultimi anni la media annuale è sempre stata sui 7-8 centesimi (parliamo di media annuale, sebbene i valori istantanei siano molto volatili). Quindi la parte preponderante del costo all’utente finale è costituita da due elementi fondamentali:
- tasse e imposte, incluse quelle che ci dicono essere dedicate alle rinnovabili (“chi non ha un fotovoltaico paga quello del vicino”). Queste sono dunque soggette a discussione e a scelte burocratiche
- il trasporto (e la gestione e manutenzione degli impianti elettrici)
Dunque semplificando: perché concentrare gli investimenti su centrali (che sono poi private e in mano a terzi grandi controllori) per abbassare il PUN che è solo un terzo del problema? Gi impianti locali sono più flessibili, meno pericolosi, e abbattono i costi di trasporto fino ad azzerarli quando mettiamo sul tetto un pannello o una pala eolica, o una turbina di superficie nel ruscello a fianco.
L’autarchia è la scelta intelligente, e ancor più lo sarebbero le comunità energetiche (raggruppamenti locali di case o aziende che scambiano tra loro), un elemento che però nel nostro paese tarda ad emergere, per colpa della solita miope burocrazia nazionale che da anni la avvolge di clausole fumose e norme provvisorie, continuamente variate e inconcludenti.
Venerdì 3 dicembre 2021
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