Dal Regio di Parma al Valli di Reggio E. un importante caso di regia operistica

Ritorno alla Bohème, Puccini sorride

La Bohème è come Madame Bovary in letteratura, come la Pietà di Michelangelo in scultura, come Les Damoiselles d’Avignon in pittura: basta rispettarla. E hai lo spettacolo

di Sergio Bevilacqua

Il teatro Valli di Reggio Emilia
Il teatro Valli di Reggio Emilia
La scenografia di Momus, secondo quadro
La scenografia di Momus, secondo quadro

Il caso di questa Bohème di Marialuisa Bafunno, giovane e coraggiosa regista che ha avuto l’ardire di cercare l'opera e il libretto, quando tutti cercano di illuminare grandi creazioni senza tempo con astri distanti dal pianeta del caso, è finalmente emblematico.

Finalmente, dico, perché chiarisce e mette a tavola il padre, il nonno e il figlio, che fino a ieri han fatto cagnara in tutti i modi pro domo loro, e con le cose serie, con l'arte, anche quella maestosa, come è in tutto Puccini: il figlio si voltava di là se non c’era l’LGBTQ+; il padre televisivo cercava senza successo l’equilibrio dei fattori drammaturgici; il nonno poi non ne parliamo, afflitto da audiobulimia e videoressia, cercava solo la conferma del suo gusto, anche con la tecnica dello struzzo (non guardi e ascolti solo).

Ed ecco lo spettacolo popolare per eccellenza, nel contenitore cittadino, il teatro, per eccellenza diventare divisivo. Faide tra giovani e meno giovani, addirittura tra destra e sinistra, indotte da stili registici ideologici e da interpretazioni opportunistiche, simboliche e immaginarie. Certo, l’arte, la grande arte, ha “le spalle” e la puoi pure maltrattare che lei resiste e, visto che non è un cane o un umano, manco la senti gemere…

La Bohème è come Madame Bovary in letteratura, come la Pietà di Michelangelo in scultura, come Les Damoiselles d’Avignon in pittura: basta rispettarla. E hai lo spettacolo.

E il paradosso è che, se fai così, ti criticano: se rispetti il libretto e cerchi la buona farina, il giusto sale, il buon lievito e il giusto calore per fare il pane oggi che è il 2025, tromboni e trombettisti sbranano te e non il provvido alimento.

Diciamo che, raccogliendo opinioni qua e là, c'è stato un certo chiacchiericcio di quei soliti tromboni e trombettisti, di qua o di là, che vorrebbero sempre Franco Zeffirelli o Graham Vick, e poi la rissa.

Invece, se è pane, è buono fatto semplice e, come nell’eucarestia, pacifica e unisce.

E la Bohème è pane operistico.

Confermo il mio punto di vista, con un appello a Marialuisa Bafunno: continua così, almeno con Puccini, che è tutto ottimo pane. Ovviamente, dobbiamo vedere il lavoro di regia di questa Bohème nell’ambito di un progetto che ha coinvolto un cast di buone voci praticamente sconosciute e giovani, la cui presenza scenica, non è arrivata, per materia prima, alle vette praticate dal pubblico smaliziato. Ma era nel progetto, e a buon intenditor poche parole.

Se questo vale per Puccini, vanno, però, fatti dei distinguo, nell'opera lirica, nel "recitar cantando": per questo ho scritto il nome del cosmopolita lucchese, ma avrei potuto scrivere anche Donizetti o Mozart oppure il Fidelio, capolavoro figlio unico operistico di Beethoven.

L'ipertrofia musicale aperta da Gluck ha creato un (secondo) ottocento (soprattutto), spaesante. Ci sono voluti Puccini e Mascagni, Richard Strauss e Weil-Brecht per riportare equilibrio videoacustico, mentre il cinema cresceva vigorosamente, conformando il gusto popolare.

Quindi, sui critici troppo musicologi, a volte trombe e trombette, non ho dubbi: è solo ormai nelle orchestre che trovano il giusto posto... E, ovviamente, non devono dirigerle solo loro.

Quando con le reinterpretazioni troppo radicali si perdono elementi drammaturgici o con l'estetismo esasperato si distrae il fruitore dai contenuti, l'arte teatrale soffre. E allora per gradire devi complicare il quadro, fino a portare la fruizione a godere di aspetti estremi o esterni: ad esempio, un focus interno alla poetica di un autore, di un regista, di un'epoca, di un'ideologia, di un'estetica, e così via, perdendo il pubblico che cerca solo l'opera in sé, che è, ça va sans dire, il vero spettacolo. Ed ecco sorgere problemi, anche se, fino a un certo punto, tutto fa spettacolo. Tali problemi, casi di vario impresariato o di verve radicale “di qua o di là”, non sono di oggi e sono già stati affrontati con la consueta lucidità oltre il Rubicone: la medicina si chiama “dramaturg”, così, alla tedesca appunto. Perché l’opera (d’arte) è patrimonio dell’umano tout-court, il diritto alla propria catarsi è di tutti, registi operistici inclusi, ma il pubblico è dei Teatri. Ed è fatto di figli, genitori e nonni. Con un unico, vero e immenso comune denominatore: l’opera, che, se è arte, mette d’accordo tutti. A questo serve il dramaturg: è il “conservatore dello spettacolo”, nell’accezione proprio museale (tromboni e trombettisti, capiamoci: museale nel senso di disponibile alla catarsi -da Muse, appunto- e non di statico e immoto…) del termine.

Che, cioè, di fronte peraltro alla maestà della Pietà Rondanini, non si perda l’imperiale trasporto delle Pietà di Michelangelo.

Bene, tutto questo Bafunno ha fatto da sola ed è già, come Atlante, con il mondo sulle spalle. Imperfezioni? Scherziamo? Certo che ce ne sono: Atlante suda e il mondo gira. E ripulire la Bohème dai maltrattamenti recenti è un lavoro durissimo e meritorio, di grande onestà.

Alla domanda: “Che cosa è stato più arduo in questa messinscena di Bohème?” la risposta della regista è stata: “Il rispetto del libretto”.

Amen, quindi, per concludere: proprio oggi parola quanto mai di moda, data la bianca fumata vaticana.

Sabato 10 maggio 2025