al Teatro ponchielli di cremona
Allietati i teatri da Brescia a Reggio Emilia, con una sosta deliziosa a Cremona per l'opera del 1830 ispirata a Romeo e Giulietta di Shakespeare
di Sergio Bevilacqua
Dopo gli applausi di Brescia e i commenti assai positivi di Reggio Emilia, la nuova produzione lombardo-reggiana (teatri di OperaLombardia e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia) dell’opera lirica “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini (la Prima nel 1830 a La Fenice di Venezia), regia di Andrea De Rosa, approda al bel teatro Ponchielli di Cremona.
Stradivari, Monteverdi, Ponchielli e poi il torrone, la mostarda, il salame cremonese (di solo suino nobile...), i marubini (pasta ripiena di carni diverse brasate e del grana padano), serviti nei “Tre brodi” (pollo, manzo e parti scelte di maiale), e poi ancora la cattedrale romanica, S. Francesco in meditazione di Caravaggio alla pinacoteca e quattro passi in un centro storico vivo, delizioso e ben conservato… Cremona è davvero affascinante in questa giornata d’inverno assolata e mite.
Tra i compositori della prima metà dell’800, Vincenzo Bellini è grande esempio, insieme a Gaetano Donizetti, di come appariva chiara la maturazione del teatro musicale, che in quel tempo era ancora teatro prima che musicale, ma nel quale la musica stava ascendendo vertiginosamente. Ciò appare in modo particolare nel grandioso mix omniparnasiano dell’opera lirica, soprattutto nel formato grand-opéra: nuovi strumenti, orchestre sempre più numerose, composizioni sempre più versatili e sorprendenti la fruizione, faticano a non strappare con il resto, ed ecco perché Rossini, ove la musica e il canto davvero “strappano”, è il vero punto di riferimento della seconda metà dell’800, epoca in cui il teatro musicale sarà più musicale che teatro. Poi, ecco sopraggiungere Puccini e Mascagni come leader (musicali) dell’opera, e sulle loro spalle, avvenire una progressiva revisione del mix, che interesserà il 900, secolo breve per gli iati introdotti da due severissime guerre mondiali e dal rivolgimento socioculturale della rivoluzione comunista. Un secolo passato in fretta, con vertiginosi cambiamenti che interessano la società e l’arte, audiovisiva in particolare, con l’avvento del cinema e della televisione.
“Romeo e Giulietta” fine 500 di Shakespeare, da cui è tratta l’opera belliniana, non ha più nulla oggi di sorprendente da proporre drammaturgicamente, se non una calligrafia e le solite valutazioni del meglio e del peggio ormai consunte e noiose. In particolare, poi, nella versione matura di teatro musicale, i melomani e i loro pusher di pura e semplice critica musicologica, alimentano con saccenza questa dimensione parziale anche se importantissima (diciamo oggi un 50%?) della qualità dell’opera lirica, dimenticando che l’opera lirica è spettacolo audiovisivo, ancora prevalentemente live, ma rimane “recitar cantando”. Dunque, l’esperienza visiva è fondamentale e la nuova scuola di regia, già novecentesca ma ancor più del terzo millennio, l’ha ben capito: dev’essere messa in scena con altrettanta attenzione l’udito e la vista, anche grazie allo straordinario sviluppo odierno di nuovi strumenti scenografici come videomapping, videoproiezioni, tecnologie luminose, senza dimenticare che tutta la semiologia cui attingere è in ebollizione sotto la spinta dell’Esarivoluzione (sei rivoluzioni) in corso (Globalizzazione, Antropocene, Ipermediatizzazione cioè possibile comunicazione di tutti con tutti, Ginecoforia cioè emersione del femminile, Transumanesimo cioè possibile alternanza di elementi strettamente umani con altri tecnologici dalle protesi all’Intelligenza Artificiale, Teleutofobia cioè paura della Fine dalla pandemia alle minacce di guerra nucleare).
Non mi sembra corretto contestare al bravo regista De Rosa, che ho sempre apprezzato per la sobria intelligenza scenografica e la chiarezza del messaggio, certe scelte di semplice sottolineatura erotica, appunto ginecoforica, in un soggetto teatrale shakespeariano iconico se non addirittura pop. Il nostro ha trovato davvero una chiave vincente. E non mi si dica e bla e bla e bla… Se c’era merito emozionale per questa nuova produzione, beh, il regista l’ha scovato. È pur vero che nell’opera lirica, crocevia del Parnaso, grande arte, c’è quasi sempre la possibilità di una rivisitazione catartica, ma essa va appunto trovata e, per riuscirvi, occorre grande cultura e grande sensibilità socio-artistica.
S. Francesco di Caravaggio, poco lontano, medita: che si tratti di amore kinky o di amore vanilla, però il gioco regge… Un poco per i supporti vocali di genere, che nascono in Bellini 1830 entrambi femminili (soprano per Giulietta, e mezzosoprano per Romeo), un poco per la dimensione di dérèglement del giorno d’oggi, dove si sta verificando un fenomeno non ovvio di vasi comunicanti tra le dimensioni sentimentali dell’amicizia e dell’amore, fenomeno molto complesso dalle tinte politiche ma anche dai tratti di fondo oggettivi.
Poi, le interpreti eccellenti. Giulietta è il bravissimo soprano di grandi qualità attoriali Benedetta Torre: grande presenza scenica di “femme” (nello slang lgbt donna lesbica con atteggiamenti e abbigliamento femminili) ed esecuzioni canore, questo 2 febbraio al Ponchielli, al confine del bis; Romeo è la già affermata Annalisa Stroppa, un mezzosoprano capace di note basse da contralto, ben esercitate in chiave palesemente drammaturgica in questo caso, nelle vesti di una dolce butch (il tipo donna “camionista”, o maschiona, dell’immaginario kinky). Intorno a loro, una corte di trait-d’union e una sorta di tribunale del loro amore, ove l’interpretazione filologica vede il confronto storico dell’epoca tra guelfi ecclesiastici e ghibellini laici, su cui scia con grande abilità e stile la regia, donando il senso simbolico del confronto tra conservazione della relazione sessuale tradizionale (cosiddetto vanilla nello slang succitato) e sdoganamento lesbico. In quella corte, tra tutti svetta certamente Beopeng Wang nei panni di Capellio, capostipite dei Capuleti, che simbolizza benissimo anche una sorta di ottuso giudice della stranezza amorosa.
La scenografia ha il filo conduttore di un curioso, grande cubo sospeso dall’apparenza mitologico-religiosa, che serve anche alla proiezione di luci del centro del palcoscenico ove si concretizza il concetto dell’interpretazione di De Rosa: un talamo in cui i/le due giovani consumano il loro amore e la loro morte. E che, calando, rinchiude i loro corpi esanimi in un sepolcro.
Piccolo capolavoro, piacevolissimo, con protagonisti e maestranze visibilmente galvanizzate dalla qualità interpretativa, cui non è mancato il contributo della saggia bacchetta del bravo Sebastiano Rolli, capace di tenere la musica sul piano sdrucciolevole di tradizione e innovazione, e che, con sonorità lievemente accentuate rispetto alla lettera belliniana, si è così sintonizzato con la regia.
S. Francesco di Caravaggio, poco lontano, continua a meditare. Ed è già un bellissimo segnale.
Martedì 4 febbraio 2025