lezioni di neofeudalesimo - 1

Colossi economici globali, Stati e sindacati

La kermesse d’apertura della nuova presidenza U.S.A.mostra lo stato attuale del rapporto tra politica ed economia. Ho scritto per anni su diverse testate, riportando 50 anni di lavoro clinico sui funzionamenti di aziende e Stati soprattutto

di Sergio Bevilacqua

Musk, Bezos e altri miliardari da Trump
Musk, Bezos e altri miliardari da Trump

Non c’è migliore occasione di questa nuova Presidenza americana e della sua kermesse d’apertura per riprendere in modo strutturato il lavoro sullo stato attuale del rapporto tra politica ed economia da me compiuto per alcuni anni sulla testata Weekly Magazine. Da questo lavoro documentale emergono le “Lezioni di Neofeudalesimo”, che sono la quintessenza di 50 anni di lavoro clinico sull’economia mondiale attraverso i funzionamenti delle aziende e degli Stati soprattutto.

Partiamo da alcuni esempi vicini:

1. lo Stato italiano detiene un patrimonio di beni che ammonta a bilancio a circa 2000 miliardi di euro, mentre una realtà finanziaria privata e apolide come Blackrock ne gestisce quasi 10000.

2. Oggidì, ogni settore economico mondializzato mostra alcune aziende (in alcuni casi 3 o 4) che si dividono la leadership globale: le possibilità per altri soggetti di entrare nei medesimi settori è praticamente nulla, o quanto meno non programmabile strategicamente.

3. Alla cerimonia d’insediamento del nuovo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump era presente tutto il gotha delle principali aziende globali secondarie e terziarie, e non soltanto quelle di origine USA, ma anche di altri continenti, come Sudafrica, Europa, Australia, India. A spiccare, tra i partecipanti, c’erano i tre uomini più ricchi al mondo: Jeff Bezos, fondatore di Amazon, con un patrimonio stimata di 239,4 miliardi di dollari; Mark Zuckerberg, fondatore di Meta, con un patrimonio di 211,8 miliardi; ed Elon Musk, ceo di Tesla e uomo più ricco del pianeta, con 433,9 miliardi di dollari. Musk, stretto confidente di Trump, ha finanziato la sua campagna elettorale con oltre 250 milioni di dollari. Nella lista degli invitati figuravano anche Sam Altman, ceo di OpenAI (1,1 miliardi), Tim Cook, ceo di Apple (2,2 miliardi), Miriam Adelson (31,9 miliardi), e Rupert Murdoch, ex presidente di Fox News (22,2 miliardi). Bernard Arnault, magnate francese a capo del gruppo del lusso Lvmh, e uomo più ricco di Francia con 179,6 miliardi di dollari, ha partecipato insieme al figlio Alexandre. Mukesh Ambani, l’uomo più ricco dell’India (98,1 miliardi), è stato avvistato agli eventi inaugurali, così come Phil Ruffin, amico di Trump e dirigente di casinò a Las Vegas, con un patrimonio di 4,7 miliardi. Diversi miliardari e rispettivi coniugi hanno ricevuto offerte per ricoprire ruoli di rilievo nell’amministrazione Trump, tra cui Howard Lutnick (1,5 miliardi di dollari) e Vivek Ramaswamy (1 miliardo), entrambi avvistati all’inaugurazione. Secondo Bloomberg, Brian Armstrong, ceo di Coinbase (12,8 miliardi di dollari), era stato invitato agli eventi legati all’inaugurazione, anche se al momento del giuramento non è stato visto. Tra gli altri miliardari a cui sono stati proposti incarichi nell’amministrazione, ma la cui presenza non è stata confermata, ci sono Stephen Feinberg (5 miliardi di dollari), Warren Stephens (3,4 miliardi), Jared Isaacman (1,9 miliardi), Steve Witkoff (1 miliardo), Linda McMahon (il cui marito Vince McMahon possiede un patrimonio di 3 miliardi) e Kelly Loeffler (il cui marito Jeff Sprecher ha un patrimonio di 1,1 miliardi). Mark Zuckerberg ha co-organizzato un ricevimento pre-insediamento per Trump insieme a Miriam Adelson, Tilman Fertitta (10,2 miliardi) e Todd Ricketts, il cui padre J. Joe Ricketts e la cui famiglia possiedono un patrimonio stimato di 4,2 miliardi di dollari.

Quale ruolo arrivano ad avere gli Stati, in una situazione globale come questa? Il caso Trump ci spiega abbastanza coi fatti come un potere pubblico cerchi di cooptare le forze dell’economia per tenerle legare a sé e così garantire meglio gli effetti economici sul proprio territorio e per il proprio popolo di riferimento.

Le aziende economiche fanno i loro interessi materiali e vanno d'accordo coi governi degli Stati solo se i governi fanno ciò che interessa a loro, dunque in senso tecnico-economico e quindi gestionale. Ciò vale per tutte le aziende economiche, primarie e secondarie. Per le aziende di trasformazione, cioè quelle industriali e secondarie, poi, essere francesi o italiane, americane o tedesche è solo un esempio di vecchio e superato punto di vista. A differenza delle primarie (agricoltura, allevamento, e soprattutto estrattive) che sono legate al territorio, esse si muovono ormai quasi del tutto libere nel mondo e radicano le proprie funzioni (manageriali, amministrative, finanziarie, commerciali e produttive) in territori diversi a seconda delle opportunità che vi trovano.

Una grande revisione deve guidare la politica che gli Stati, dal momento che tutti sono gli aspetti toccati dalla più grande rivoluzione politico-sociale del giorno d’oggi: il completamento della globalizzazione economica. E tutti gli effetti sono ormai lontani dal pensiero economico storico (da Adamo Smith a Karl Marx, passando per Keynes, Leontief e Modigliani),

Non c’è Stato (singolo o federazione attuale) che possa contenere l’economia secondaria globalizzata. Gli Stati sono una realtà naturale dell’organizzazione antropologica dell’Umanità. La loro natura di sistema riguarda gestione e strategia degli aspetti stanziali, territoriali e antropici che insistono sulla propria area di giurisdizione, sostanzialmente determinata da fattori geografici e logistici contrattati politicamente; la risorsa umana è uno di questi, probabilmente il più importante sia sul piano schiettamente economico che su quello filosofico e morale. Gli Stati hanno quasi sempre un popolo di riferimento, e questo popolo trova sostentamento e benessere grazie soprattutto a fattori economici, tradotti in welfare, ovvero servizi, dallo Stato stesso o attraverso regolazione dei servizi dati da privati oppure attraverso produzione diretta. Nel quadro odierno, l’economia è in mano a organismi aziendali globalizzati e apolidi e i singoli Stati non possono incidere in nessun modo sistematico sui risultati e i funzionamenti di tali soggetti.

Gli Stati tendono a divenire sempre più difensori della classe lavoratrice. Ciò però deve avvenire con estrema attenzione e competenza, perché le aziende secondarie che incontrino ostacoli prodotti dagli Stati, se non controbilanciati da valore sistemico superiore, attuerebbero molto semplicemente una delocalizzazione, una migrazione altrove dei mezzi di produzione con sostituzione della risorsa umana con altra ivi localizzata.

Ciò segna la piena e completa decadenza del principio del materialismo storico marxiano, cioè della lotta di classe e della prospettiva di sostituire con un potere dei lavoratori il potere di pochi capitalisti. Essi divengono imprendibili e così il loro potere economico. Il Nuovo Feudalesimo non presenta castelli da assediare con forconi. Impossibile diventa, per i lavoratori, appropriarsi dei mezzi di produzione: la dinamica della rivoluzione industriale con i suoi possibili modelli politici, come l’abbiamo conosciuta dal XVII al XX secolo, è definitivamente cambiata con la maturazione dell’economia industriale e, forse, con il decadere dell’esperienza comunista sovietica.

Allo stato attuale, si profila l’esistenza di tre diverse tipologie di soggetti strategici per lo sviluppo dell’umanità:

  1.  Le grandi aziende secondarie apolidi
  2. Gli Stati e loro federazioni
  3. Le aziende primarie e i relativi Stati di riferimento.

Tre tipologie di soggetti macroeconomici, tre differenti strategie. In questa epoca fetale del Neofeudalesimo, il panel plutocratico dell’economia di trasformazione cerca Stati accoglienti, meglio se forti e disponibili coi quali contrattare radicamento e conseguente benessere delle popolazioni locali. La preferenza cade in genere su sistemi di tipo democratico, perché all’interno di sistemi dialogici e tendenzialmente meno violenti è più facile trovare canali per stabilire le condizioni del radicamento, sempre peraltro imprenditorialmente inteso come temporaneo. Poi esiste una correlazione tra Stati democratici e sviluppo civile, con creazione di servizi per la popolazione che rendano più serena la risorsa umana, e dunque anche più disponibile riguardo al suo contributo di lavoro nelle aziende. Dall’altra parte, poi, gli Stati totalitari tendono a primeggiare in termini sistemici e rendono più rischioso il radicamento e le sue flessibilità.

Il totalitarismo è invece più tipico dei soggetti di tipo 3. , ove l’economia sia prevalentemente primaria e i relativi soggetti economici, invece di cercare margini competitivi nelle catene del valore globali delle aziende di trasformazione, tendano a difendere e ad aumentare il proprio potere con la forza insita nelle organizzazioni statali, da essi stessi eterodirette.

In questo quadro, è chiaro che il decadere delle ipotesi fondanti il materialismo storico portano i sindacati a diventare corporativi, cioè a condividere in primis le strategie delle aziende e dei loro establishment.

Ci sono motivi differenti in ogni caso economico. Certo che alcuni Stati fanno un lavoro di sostegno alle aziende più efficiente. gradito e, perché no, verso aziende “di casa”, ma oramai non viene esclusa nessuna azienda di nessuna provenienza. Questo non significa che gli Stati devono fare ciò che vogliono le aziende. Il miglior operare di un'azienda in Italia o in Finlandia dipende comunque sempre da moltissimi fattori, che sono, principalmente, per le aziende industriali: logistica, tasse e gestione/presenza/qualità di generali e specifici fattori della produzione.

A differenza delle aziende, le persone che vi lavorano hanno altre ottiche. È ormai piuttosto chiaro che nessun mercato locale può considerarsi autonomo dall’intero mercato mondiale. È quindi abbastanza ovvio che i fattori della produzione debbano convergere verso il sostegno alle iniziative economiche, che la storia ha sancito come meglio gestite dai privati che dagli Stati. Nella situazione attuale, dunque, le forze della produzione del valore devono necessariamente essere coese intorno al risultato d’impresa, e così la forza lavoro, i dipendenti. I sindacati devono avere vigore ed essere ben organizzati, perché il loro destino, pena la sopravvivenza delle aziende, e quindi la loro propria nonché dei lavoratori di cui rappresentano gli interessi, è di contribuire consapevolmente al successo delle strategie d’impresa. Ciò implica specifica responsabilità economica, rappresentanza e capacità di contributo: ecco il senso del neo-corporativismo cioè, condivisione contributoria alle strategie delle imprese in modo da massimizzare le possibilità di competere rispetto ai giganti globali presenti in tutti i settori. I semplici sindacati (solo) “di classe” nella contrattazione aziendale e anche in quella collettiva sono una sciagura oggi, e anche a causa di ciò le aziende possono abbandonare territori e relativi occupati.

Il problema della difesa delle socioeconomie locali passa attraverso una posizione statale di sostegno circostante del lavoro, indiretta, e non di schieramento nelle relazioni industriali. Ciò implica che i partiti devono avere propri sindacati di riferimento, per poter portare avanti nel quadro politico istituzionale le istanze dei settori e delle loro aziende e persone. Il primo tema di tutte le aziende deve essere in rapporto alla globalizzazione, e ciò riguarda i tre livelli di discussione sull’oggetto sindacale, e cioè: 1. Capacità competitiva interna all’organizzazione e relativi programmi; 2. Divisione dei profitti; 3. Organizzazione della rete. L’unitarietà di comando della azienda non deve essere lesa in nessun modo, ma il management deve essere anch’esso pienamente responsabile e sensibile ai tre livelli suddetti. Lo sguardo di tutti deve essere indirizzato al movimento verso gli spazi competitivi possibili nella consapevolezza del mercato unico mondiale.

Da una parte, il rapporto tra capitale e lavoro è da considerare un fatto tecnico, a maggior ragione dal momento che i settori sono tutti maturati e presentano leader e principali player di enormi dimensioni socioeconomiche e pericolosissimi per gli altri competitor follower; dall’altra parte, la struttura economica è molto più chiara, e molto chiare sono le condizioni per attraversarla con un’attività aziendale, sia nella difesa che nell’attacco. La dismissione di attività fa parte intrinseca del processo di adattamento, e quindi l’intera struttura e cultura delle aziende deve essere fortemente flessibile nel senso di preservare soprattutto la versatilità dell’organismo alle soluzioni differenti, in termini di cultura, capacità operativa e resistenza, preservando e alimentando principalmente le capacità di identificare e organizzare le prime fasi dei nuovi business, soprattutto di tipo interstiziale e locale, in quanto il main stream anche d’innovazione nei diversi settori è controllato dai colossi globali.

Dunque, gli equilibri psicosociali e socio organizzativi son letteralmente cruciali, e sono vitali per i principi di libertà d’azione e di governo delle esistenze: tali temi appaiono quindi come politici di massimo livello e implicano certamente, l’impegno di strutture di massino livello sociale, come gli Stati. È conseguentemente chiaro come tali obiettivi di resistenza e di contributo devono essere considerati obiettivi fondamentali per la politica, cioè principalmente per il governo degli Stati.

Appare specularmente molto problematico il rapporto degli Stati con le grandi realtà economiche sovraordinate: essendo queste ultime almeno altrettanto potenti dei più importanti Stati sul piano economico, ma essendo sempre queste realtà economiche molto più veloci e potenzialmente aggressive rispetto a tutti i poteri circostanti, tra cui gli Stati appunto. Inoltre, essendo gli Stati, soprattutto se Democrazie, sostenute dal consenso popolare, il rapporto con il potere neo-feudo-olistico è un rapporto che deve essere considerato governabile, e gestito in quanto tale perché lo è, e quindi dialettico, sinergico, ma mai prono. Infatti, appena le aziende globali percepiscono la debolezza di un potere circostante, tentano spontaneamente di dominarlo, mentre se percepiscono un atteggiamento di forza e di resistenza sono portate a considerarne prima di tutto il contributo e solo successivamente l’eventuale dominio.

Il potere (del tutto naturale) degli Stati è proprio nelle risorse stanziali, e costituisce un approccio totalmente diverso da quello d’invasione cosiddetto glocal, rizomatico di superficie, che le aziende globali instaurano col locale. Moltissime energie economiche provengono da questa dialettica, che non deve avvenire come contrapposizione (ottica sovranista, localista, anti evolutiva, passeista, oscurantista) ma come orgogliosa resistenza (se c’è da resistere, e dove è opportuno…) e soprattutto sinergia. Intanto, è in questa chiave che deve vivere la pratica sindacale; poi, in quella ulteriore specificazione e integrazione che è propria del funzionamento politico di tutti gli Stati. Ciò è vero anche per quegli Stati, come ad esempio lo Stato neo-comunista (o, forse meglio, post-comunista) cinese, che vedono confluire nel pubblico molte funzioni che le democrazie considerano esterne, anche se poi, nei fatti, la comunità di cultura cinese è piuttosto integrata nell’ambiente mondiale e occidentale, cioè, detiene bassissima differenza antropologica, e le aziende di proprietà cinese operano in regime di libera concorrenza più o meno come le occidentali.

Diverso ovviamente il discorso su sistemi socioeconomici dis-integrati rispetto alla produzione del valore, quali sono quelli dell’Africa, del Sudamerica, che vivono ancor’oggi in uno stato di sostanziale soggezione, fornitori di materie prime soprattutto e poco considerati a livello politico globale, terre di conquista ancor’oggi, oppure altri invece perfettamente integrati come il Canada, o altri ancora invece subdolamente e violentemente resistenti alle regole dell’economia olistica come la Russia putiniana.

Mercoledì 22 gennaio 2025