Prima al teatro vascello e poi in lungotevere mellini 33 il 29 ottobre
Dopo la rievocazione di mezzo secolo di grande teatro al Vascello, si procede con la presentazione dell'"Antologia Rigoniana", cinque opere letterarie dall'archivio di Luigi Rigoni che delineano lo scenario estetico di una lunga stagione
di Sergio Bevilacqua
Il 6 ottobre al Teatro Vascello di Roma è andata in scena l’ultima replica di "50 anni di (r)esistenza". Chi non ricorda Manuela Kustermann? Questa grande attrice teatrale è stata, insieme al povero Giancarlo Nanni, esponente di punta di quell'avanguardia teatrale romana che ha dato corpo per mezzo secolo al più profondo teatro di prosa italiano. Oggi, con Massimo Fedele, Gaia Benassi e Paolo Lorimer lo fa rivivere e spolvera decenni di Dionisie perché, al di là dell’impegno politico e delle speciali condizioni estetiche degli anni ’60 e ’70 (e oltre…), il teatro era gara e concorrenza, esercizio agonistico quasi come ai tempi di Pericle.
Prima, erano le "cantine". Poi, è stato l'epico Teatro Vascello, una specie di Teatro Parenti a Roma: meno sofisticato e più umano. Negli anni '60, Nanni e Kustermann hanno portato in Italia il fresco vento della Beat Generation, mentre Balestrini, Pagliarani, Arbasino e Mario Ceroli facevano ricco il Gruppo 63, il Living Theater di Julian Beck e Judith Malina imperversava, Angelo Maria Ripellino forniva suggestive perle di pregevole italiano e Mario Schifano filmava le performance di quei ragazzi, suoi talentuosi amici.
Manuela dimostra oggi almeno 20 anni in meno di quelli che ha, una parte di quel mezzo secolo durante il quale ha accompagnato il nostro immaginario drammaturgico, tra 68, 77, anni di piombo, yuppies e punk, globalizzazione, illusioni di pace mondiale e, oggi, illusioni di guerra mondiale. Insieme a lei e a Nanni, a braccetto con Č echov, Kantor, Ibsen, Strindberg, Wedekind, andavano i nostri Di Marca, Memè Perlini, Giuliano Vasilicò e, ospitati da altrove, c'erano anche Bob Wilson e Peter Brook. Ma il mondo stesso li osservava, e si vede ancor oggi in loro una sobria cifra cosmopolita molto rara nella cultura dello Stivale.
C'è anche un ramo maledetto ed estremo di quest'espressività clamorosa e bellissima, che vede Pippo Di Marca come trait-d'union: è la linea Carmelo Bene- Simone Carella-Victor Cavallo-Luigi Rigoni. E poi ci sono le esperienze, che vedono sempre Rigoni in prima linea con Alessandro Berdini, con le drammaturgie sofisticate di Maurizio Grande e di Franco Cordelli.
Il 29 ottobre e il 6 di novembre a Roma avverrà un altro rito: la presentazione di "Antologia Rigoniana. Luigi Rigoni, un modenese al centro dell'avanguardia romana", cinque opere letterarie di Rigoni decodificate da Di Marca, Scartaghiande, Palladini e da me, con la curatela di Imma Giovannini.
Questa antologia riguarda il Rigoni autore, anche se non è del tutto disaccoppiabile dal Rigoni attore. Mentre l’attività d’autore si svolge nella camera oscura di una mente, salvo il progetto di produzioni a quattro o più mani, l’attività di attore vede progetti quasi sempre con “qualcuno”. Questo qualcuno, e anche di più, per Luigi Rigoni è stato, per vent’anni, soprattutto Alessandro Berdini. Tra i tanti spettacoli fatti insieme, al Teatro Vascello, divenuto tempio della scuola teatrale romana, Berdini e Rigoni mettono in scena, a titolo emblematico, “Shylock e Faust” di Maurizio Grande e “Arancio” di Franco Cordelli.
Poi, sempre in clima “Vascello”, all’interno della pubblicazione “Antologia Rigoniana” sono ospitati tre contributi di illustri intellettuali sullo spessore socio-letterario e storico del lavoro di Luigi Rigoni.
Il primo è dovuto a Pippo Di Marca. Egli svolge, nel quadro delle sue cronache sull’avanguardia teatrale romana e dei fattori di antropologia culturale che si producono tra gli anni ’80 e il primo decennio del nuovo secolo, una profonda disamina del ruolo che il modenese Rigoni ha giocato a Roma accanto a tanti personaggi di cultura. Quel fenomeno artistico e intellettuale è sospinto dall’estro di Carmelo Bene e vede nei già citati Maurizio Grande, Franco Cordelli, Memè Perlini, Leo de Berardinis, Giuliano Vasilicò, Alessandro Berdini e tanti altri, una corona al lavoro di Rigoni. Turn on, tune in, drop out: egli, a Roma, ridefinisce la sua vita precedente, si sintonizza e raggiunge un riconosciuto livello di contribuzione all’estetica rinnovata del movimento. Di Marca segnala come la vita poietica di questi artisti sia connotata dal sacrificio della biologia umana sull’ara dell’arte. L’alcol più delle droghe è il vettore di questo sacrificio, ma non c’è idea di persistenza dietro quei comportamenti. La dimensione tiberina di ciò che appare un esperimento oltre le avanguardie, a confinare con l’Art Brut, in realtà esprime una teleologia teleutica, originalissima: è il sacrificio che solo libera la salvazione, in un altrove sperimentato in corpore vili, in rigoroso, costante dialogo diretto con la morte. Se Dubuffet e i “suoi” vivono il delirio come prerequisito della creazione, a Roma si è infranto il settimo sigillo, ed è la partita diretta con la morte che si è aperta, e comanda. E prende le forme dell’attore impossibile, che mette in scena la sua stessa afanisi, con il rimpicciolirsi della scena live di fronte all’ingigantirsi dell’audiovideo dilagante, vita morta del prodotto cine-televisivo. Che senso ha quel corpo che si muove sulla scena, se non quello della sua deperibilità, della sua vera morte fisica?
Marco Palladini prende analoghe misure nel suo commento aforistico di spigolature a latere del testo rigoniano "Il postumo redivivo". Egli svolge un importante lavoro per cercare di rappresentare ciò che quest’arte rigoniana prima di tutto dona: richiama i riferimenti filosofici e psicanalitici di quanto sta accadendo tra gli ’80 e i ’10 nella caput mundi e non solo lì. Quando la morte è fertile? La descrizione delle decomposizioni del corpo nell’arte incarnata, descritte con la finezza di ricette lacaniane, deleuziane, ma anche con l’intuizione collegata al neologismo “necroritmo”, aprono nel testo di Palladini gli orizzonti quintessenziali di un’arte che, come un fiore o un verme, si nutre di decomposizione e produce catarsi.
Gino Scartaghiande gioca il suo testo non su un piano più storico e sociologico come Pippo Di Marca, non su un piano più filosofico ed estetico come Marco Palladini, ma mette in gioco la poesia e l’arte del pensiero. Luigi Rigoni è per Scartaghiande un aedo che interpreta la sua morte mondana accanto ad altri cantori; e, nel quadro di una temperie estetico-drammaturgica modellata con i guanti bianchi, si sofferma sull’eccellenza dell’effetto catartico in Rigoni.
La precedente pubblicazione del piccolo capolavoro “Il Poema di As” per i tipi di IBUC nel 2022 aveva indicato la rotta, ora “Antologia Rigoniana” illustra cinque porti d’arte, ove Rigoni ha gettato l’ancora, con la sua catena rigorosamente intorno al collo, come un elegante ermellino…
La storia continua!
Martedì 8 ottobre 2024