I PERCORSI DELL’ARTE SONO DI AMICIZIA E AMORE
La attuazione di servizi agli artisti (mostre, comunicazione, confronti, critica estetica, storica e sociologica, contatti coi collezionisti, consulenza di processo) porta a una revisione fondamentale del mercato dell'arte
di Sergio Bevilacqua
Sull’arte si è detto di tutto, ed è proprio per questo motivo è difficile sapere quale è il modo giusto d’intenderla ora. Parleremo qui prevalentemente di arti visive, come è d’uso chiamare oggi le arti che interessano in fruizione il senso della vista, e che sono soprattutto pittura, scultura e ceramica, fotografia, cinema, collage, tecniche miste tra quelle elencate e, presenza sempre più importante, l’arte digitale.
Con una veloce occhiata al passato, possiamo dire che tutto era stato piuttosto chiaro fino a circa il 1830, quando i nostri antenati si sorprendevano riguardo alle buone realizzazioni pittoriche o scultoree, le uniche presenti fino allora della serie del paragrafo precedente (la fotografia cioè e i suoi derivati e composti si profila concretamente solo con Niépce prima e Daguerre poi, 1830 appunto). Quella “sorpresa” era l’effetto della particolare corrispondenza tra le opere, la riproduzione realizzata dalla mano umana, e la percezione sensoriale, visiva, di un oggetto, evento, idea. Avveniva cioè un implicito lavoro di comparazione tra ciò che l’occhio vede e ciò che la mano, tavolozza-colori-pennelli aveva realizzato. Quanto più lo strumento “Mano” operava bene, tanto più la sorpresa era grande e positiva e la opera arrivava a somigliare moltissimo al suo oggetto. Perché proprio questo era il suo scopo: fare perdurare la memoria di persone, luoghi, situazioni oltre la loro esistenza fisica e materiale. L’artista, dunque, era colui il quale con massima magistralità spostava ad esempio sulla tela o nel marmo l’immagine di qualcosa o qualcuno, dando a questo soggetto una permanenza su alcuni aspetti diversa rispetto a quella semplice decisa dalla natura. Quell’effetto di sorpresa era la catarsi nelle arti visive: la sorpresa, il piacere di vedere un nostro desiderio di padronanza o di sopravvivenza iconologica realizzato attraverso la sua immagine in nostro possesso.
Eravamo tanto abituati a chiedere a pittori e botteghe questa soddisfazione che, al sopraggiungere della tecnologia ottica fotografica, abbiamo tardato a riconoscere in questa la fonte della migliore memoria iconografica, e ancor’oggi non tutta la critica è concorde; ma intanto l’arte ha effettuato un vero, enorme salto. Mai, prima della fotografia, si sarebbe ipotizzato di allontanare la manifattura pittorica o scultorea dalla domanda di rappresentazione il più possibile fedele della nostra realtà percettiva.
Certo, nella storia gli stili della rappresentazione sono stati differenti, prendiamo ad esempio in pieno Rinascimento, il caso di Andrea Schiavone a Venezia o, subito dopo, di El Greco in Spagna soprattutto: mentre trionfava la perfezione della riproduzione, sia l’uno che l’altro reinterpretano la figura, dando senso al movimento e all’impressione complessiva, con risultati quasi novecenteschi. Lo scopo è però sempre stato il medesimo, quello della memoria e della raffigurazione di ciò che stava nel nostro reale o, anche, nel nostro ben definito immaginario simbolico e trascendente, vedi ad esempio quello della grande, sublime arte sacra, in particolare dal 1400 a quasi tutto il 1800.
È dopo che avviene il grande balzo, la grande rivoluzione. Nessuno prima poteva immaginare di sganciare la catarsi, il piacere della rappresentazione, dalla esperienza percettiva del reale o dell’immaginario strutturato (come detto, prevalentemente l’iconografia sacra o codificata). Ed è una pura invenzione umana, una vera innovazione culturale quella di scegliere di spostare la rappresentazione verso fattori non più provenienti dalla percezione sensoriale visiva o iconologica strutturata. La nascita del processo di orientamento all’astratto e al simbolico metaforico conduce le correnti delle avanguardie storiche di fine ‘800 dall’impressionismo al vero e proprio astrattismo, fino alla estrema varietà di orientamenti della contemporary. Il Novecento è il secolo di questa deriva extrapercettiva del referente raffigurativo pittorico e scultoreo, accanto all’esplosione di tutte le diverse tecniche di arte visiva che provengono dalla tecnologia fotografica analogica e poi digitale.
Il crollo del principio di rappresentazione della realtà percepita, prima leso poi infranto, apre a scenari di assoluta indifferenziazione, fino a dare come obiettivo all’arte visiva il suo mezzo, la catarsi. Cioè, mentre l’obiettivo in origine era la magistralità della rappresentazione, della corrispondenza con un elemento percepito, la sottrazione di tale oggetto a opera della tecnica fotografica ha spostato tale obiettivo prima su diverse modalità dalla percezione (l’impressione dell’oggetto, ad esempio “soleil levant”), fino al semplice effetto di catarsi.
È evidente che, di fronte a questa disarticolazione del ciclo artistico, si rischia di perdere il valore umanistico dell’arte. L’estetica, cioè, è messa a dura prova. Che differenza c’è tra un sorprendente oggetto di N.F.T., magari proprio di arte digitale, e un videogioco? Che differenza tra la droga e la catarsi artistica? Che differenza c’è tra una semplice tela colorata a geometrie e un Albers o un Mondrian? Che differenza c’è tra il disegno di un bambino e un Klee o un Haring? L’occhio esperto è in grado di riconoscere le differenze, ma, a parte gli elementi patrimoniali, e non solo finanziari, la somiglianza non produce il medesimo effetto catartico? Anche se il prodotto non è del grande nome? I sensi non sono stimolati allo stesso modo?
Il distacco della manifattura dal suo oggetto concreto ha prodotto una brutale semiotizzazione dell’arte, cosicché essa ha dovuto essere spiegata. Fino a far diventare oggetto della catarsi la spiegazione dell’arte e non l’opera stessa. Il sistema dell’arte investe l’opera di una pioggia semiologica che proviene dalla filiera e cioè dai professionisti che ne fanno parte: critici, curatori, mercanti, galleristi si occupano del senso dell’opera e dell’artista per i loro interlocutori, e dunque per il fruitore. Essi possono trasfigurare letteralmente il quadro, e anche magicamente a volte la sua stessa fruizione. L’opera contemporary, cioè credo di poter dire del periodo che va dagli anni 60 circa ai 10 circa, questi 50 anni, non segue più un’estetica: è avvenuta una diaspora, ognuno si è portato con sé miti e riti, ma il riferimento alle aspettative del fruitore e allo stesso concetto di catarsi sembra svanire. Le nuove cave sconvolgono i lemmi dell’arte cosicché nemmeno le parole sacre del genere artistico, come per esempio “pittura” e “scultura”, hanno più senso con l’incedere delle tecniche miste, delle performance e dell’invadere l’etere e i muri da parte degli artisti.
Da New York, Londra, Parigi, Basilea, Venezia forse anche Milano ci rassicurano, ma c’è ben poco da rassicurarsi: il gotha dell’arte mondiale è già decollato verso un oligopolio determinante, e la gente non ha difficoltà a sapere dove viene portato il gusto.
Intanto, però la scala si è rotta e i piani bassi non dialogano più con quelli alti, che sono diventati altissimi, mondiali, globali. Per arrivare là, non ci si può andare, semplicemente, come si faceva per Montmartre ai primi del ‘900. La strada è strettissima, e potentissimamente autoreferenziale: sono cioè 6 o 7 persone al mondo che decidono i gusti artistici della gente; e, a questo punto, con il controllo professionale della comunicazione, non è più importante la domanda sopra su videogiochi, quadri geometrici o disegni dei bambini: sono loro che dicono cosa è e cosa non è, a volte anche se si tratta di un Giacomo Balla o di una sua volgare imitazione…
E allora a noi cosa resta? Il paradosso di un ritorno alla naturalità dell’arte: manifattura, capacità invasiva ed evocativa per semplici umani entusiasti di avere in casa una fonte di catarsi adatta a loro, al loro spirito, e anche consapevoli del quadro estetico globale così come dell’inavvicinabilità di opere di artisti come Jenny Saville, Marlene Dumas, Bruce Nauman, Giuseppe Penone… in un mondo ove tutto è possibile, tutto e il contrario di tutto, abbiamo in mano una bandiera: quella dell’Arte come sentimento, come sono Amicizia e Amore, quello della serena catarsi di ciascuno, che sposa l’opera col suo fruitore, fino a renderla emblematica dello spirito del tempo.
Ecco quindi i nostri Percorsi, come lavoriamo per il bene dell’arte: cerchiamo le vie del senso e lo rendiamo disponibile nella giusta forma al grande pubblico di miliardi di potenziali fruitori, collezionisti minimi e massimi, e ricostruiamo dal basso un tessuto di confidenza tra artisti e fruitori, avveduti del grande palcoscenico mondiale e delle tendenze globali della catarsi, ma anche delle piccole esigenze, dei piccoli, umanissimi piaceri di riempire con soddisfazione una parete della propria abitazione (e del proprio sé) con qualcosa di chiaro, per il collezionista, per l’artista e per il mondo. Con questo onesto lavoro creiamo delle ascensioni, facciamo vivere la varietà e la generosità, diamo lustro al rischio di giocare la propria vita su stilemi sensati degli infiniti possibili, facciamo incontrare segni e loro percezione, sosteniamo la catarsi e, quindi, facciamo del bene.
Arte come Amicizia, Arte come Amore. Così, concretamente, essa è la verità di Doriana Della Volta e la mia ne I Percorsi dell’Arte: il sistema dell’arte va conosciuto e utilizzato, con la consapevolezza di cercare la catarsi ove essa è, cioè presso persone che la vogliono rinnovare ogni volta che il loro occhio si posa sull’oggetto che hanno deciso di possedere. Perché esso è fatto per loro, per il loro gusto, per la storia loro e di tutti coloro che gli assomigliano, che sono sensibili agli stessi segni e contenuti. Ciò non accade soltanto per la volontà di alcuni “padroni dell’arte globale”: essi possono anche orientare, ma sotto la loro chioma proliferano fruitori e stili, anche se la catarsi individuale è moltiplicata dal puro meccanismo della comunicazione. I mille percorsi dell’arte hanno oggi tutti un insieme di fruitori di riferimento: nessun assoluto definitivo, ma tanta opportunità di generare il sano piacere dell’Arte, la catarsi che discende dalla percezione dei suoi segni magistrali.
Giovedì 23 febbraio 2023