Daniele semprini
Fino a che punto il mondo e l'uomo sono trasformabili? L'evoluzione del pensiero scientifico e della tecnica può ingenerare illusioni
di Daniele Semprini
Il tentativo di possedere e di trasformare il mondo in cui vive coincide con la stessa comparsa dell’uomo ed inizia con i suoi sforzi per sopravvivere e adattare il più possibile l’ambiente alle proprie esigenze. Il cammino percorso dall’umanità nei milioni di anni e, soprattutto, negli ultimi millenni è stato stupefacente e ci ha portato, in questi ultimi secoli, alla prospettiva, inimmaginabile prima, di una padronanza integrale del mondo e della vita umana stessa. La sequenza del film Odissea nello spazio di Kubrick in cui la mascella d’animale lanciata in aria dal troglodita si trasforma repentinamente in un’astronave è verosimile, nel senso che lo spazio di tempo dell’evoluzione che separa l’uomo primitivo dall’attuale è, a confronto con le immense dimensioni del tempo cosmico, veramente un istante.
Cerchiamo di individuare alcuni momenti e passaggi basilari di questo percorso per capire come si è giunti alla convinzione, almeno da parte di alcuni, della possibilità di trasformare radicalmente non solo il mondo, ma anche l’uomo stesso fino a coniare il termine di post umanesimo per indicare lo status di tale nuovo individuo prodotto dalla tecnologia.
Distinguiamo, per chiarezza e brevità, due grandi fasi dell’ultima parte della storia: quella cosmo centrica e quella antropocentrica.
La prima inizia nella notte dei tempi e prosegue fino alla nascita della seconda e caratterizza la totalità delle civiltà precristiane. L’uomo si concepisce totalmente immerso nelle viscere della natura, in un rapporto fusionale col mondo, parte viva di esso. Questo naturalismo comporta un’immanenza radicale dell’uomo che, pur esercitando tutte le sue facoltà per vivere il meglio possibile, resta subordinato, dipendente dalle circostanze e dalle forze naturali, concepite normalmente come entità divine. Anche le grandi civiltà mondiali che elevarono l’uomo ben più in alto dello stato delle tribù primitive, grazie ad invenzioni, costruzioni ed opere ammirevoli, non si staccano dalla visione cosmo centrica, nel senso che continuano a concepire l’uomo come parte secondaria e mutevole dell’immutabile ed immenso ciclo cosmico, dei suoi ritmi e delle sue leggi. Il massimo potere raggiungibile consiste in una sapienza composita che, mentre permette di scoprire determinati meccanismi naturali, consente all’uomo di inserirsi il più armoniosamente e proficuamente possibile all’interno delle dinamiche della natura stessa. Da qui si capisce il carattere utilitaristico delle varie religioni precristiane, tutte volte ad un interscambio con le divinità teso ad assicurare sicurezza e prosperità per il popolo. Il dominio del mondo è molto limitato e assolutamente impotente di fronte a certi fenomeni naturali, come cambiamenti climatici, terremoti, alluvioni o simili, che mettono a repentaglio la stessa sopravvivenza umana.
Anche il mondo greco, dove tra il VI e il V secolo a.C.nacque la filosofia, non sfugge alla suddetta visione. Eppure emerse nei suoi pensatori, da Talete in poi, un elemento che costituirà la chiave di una rivoluzione senza precedenti: il logos, la ragione che nell’uomo iniziò a rappresentare il fattore sempre più decisivo per comprendere il tessuto costitutivo del reale. Il mondo prima, l’uomo poi diventarono un oggetto di indagine che a poco a poco si svuotò della sua enigmaticità e si risolsero in un sapere concettuale chiaro e comunicabile. Al di là della varietà contraddittoria delle teorie elaborate occorre sottolineare due caratteristiche della filosofia greca: la capacità del logos di penetrare tutti i meandri del cosmo e dell’uomo fu progressiva e si rafforzò a tal punto da essere in grado di sviluppare la seconda caratteristica, cioè l’autoironia, la forza di mettere in discussione i risultati conseguiti, senza mai pretendere di aver creato sistemi di pensiero totalizzanti e indiscutibili; lo scetticismo, in tal senso, prima di rappresentare una determinata corrente filosofica, sta a significare tale coscienza di inadeguatezza strutturale del pensiero rispetto all’essere, anche in un autore come Aristotele che appare come l’autore di un sistema pretenziosamente definitivo.
Occorre aver chiaro che cosa comportò agli occhi di quegli uomini il sapere: conoscere fu l’equivalente di potere. La conoscenza di un determinato oggetto, sia della natura che dell’esistenza umana, permetteva un possesso, un dominio dell’oggetto stesso e non a caso alcune scienze (come la matematica, la geometria, l’astronomia, la zoologia e quelle legate all’uomo come la logica, la retorica, l’etica ecc.) si svilupparono sul terreno della filosofia.
In Grecia iniziò quel cammino della conoscenza razionale della realtà che, pur rimanendo nel quadro di una visione cosmocentrica, desterà nella coscienza il sentimento di un protagonismo capace di interagire attivamente col mondo, anche se, dal punto di vista pratico, la technè, la capacità operativa dell’uomo, non portò a trasformazioni sostanziali della sua condizione esistenziale che, in ultima analisi, restava ancorata a leggi e forme sentite come immutabili. Il tragico volo di Icaro resta come l’immagine emblematica di un desiderio impotente, incapace di superare i limiti imposti dal Fato. In sintesi si può parlare di un potere del logos ancora prevalentemente passivo.
La visione antropocentrica venne inaugurata dall’evento storico del Cristianesimo. È evidente che la presa di coscienza della centralità dell’uomo si sviluppò lentamente lungo l’arco di svariati secoli, ma gli elementi costitutivi di tale visione erano impliciti nella concezione che la fede aveva fondato: l’Incarnazione del Verbo confermava e aumentava radicalmente la preziosità dell’essere umano agli occhi del Creatore e lo poneva “al centro” delle vicende mondane; tutto, in fondo, appariva come creato in funzione dell’esistenza dell’uomo e perfino il suo Artefice divino si era “scomodato” per salvarlo dal male.
Oltre a ciò nasceva un’idea di natura umana nuova: l’uomo è anima e corpo, dove l’anima è immortale, creata da Dio stesso e propria di ogni individuo, unica e irripetibile; lo stesso corpo è destinato alla resurrezione finale e non costituisce il polo negativo contrapposto al polo spirituale positivo. La sintesi tra Cristianesimo e neo platonismo nei primi secoli, pur accentuando l’importanza dell’elemento spirituale, non portò mai, se non nelle sette ereticali, al disprezzo radicale della materia. L’anima, come segno della somiglianza divina dell’uomo, costituì il fattore di reale trascendenza dell’uomo stesso rispetto al mondo: era nato l’uomo “soprannaturale”, ontologicamente superiore a quella natura dentro cui rimaneva corporalmente inserito, libero anche se di una libertà condizionata, potenzialmente signore di un creato predisposto provvidenzialmente per il suo bene. Il Peccato originale, pur nelle conseguenze visibili nello stesso assetto doloroso della vita umana (malattie, precarietà, morte, oltre ai mali morali), non dominava più gli uomini nella misura in cui si lasciavano afferrare a trasformare dalla potenza vitale di Cristo risorto.
I suddetti elementi, cioè la centralità dell’uomo nel cosmo e la sua ontologica diversità e superiorità rispetto alla natura, insieme all’eredità del logos greco e dello spirito romano, crearono quel soggetto storico che, attraverso un percorso lungo e tortuoso, portò alla formazione di quel tipo di umanità che fiorirà, in forma splendente, nel periodo umanistico rinascimentale. L’uomo è per volontà divina “signore” del creato ed il mondo gli è affidato come una dimora che egli può e deve curare e trasformare in vista del suo bene, culminante nella beatitudine celeste.
Lungo tutto il medioevo il lavoro di assoggettamento della natura si rivolse prevalentemente sulla natura “interiore” dell’uomo: il corpo doveva essere subordinato allo spirito e la vita era concepita come una lotta per realizzare tale lavoro ascetico, affinché l’elemento fisico materiale venisse trasfigurato per divenire segno della vittoria di Cristo e gloria di Dio. Così come tutta la creazione, rettamente concepita, era una lode al suo Creatore, anche il mondo umano doveva essere concepito e costruito in modo tale da rappresentare una lode al Signore (da qui la concezione simbolica medievale). Solo nelle eresie prevalse il disprezzo dell’elemento materiale, più o meno radicalmente, comprese quelle millenaristiche che annunciavano l’imminente fine del mondo e l’inizio già qui sulla terra del Regno dei Cieli. La Chiesa sempre affermò che la condizione umana era solo parzialmente migliorabile e che mai l’uomo avrebbe potuto sconfiggere i mali che lo affliggono, pur con la Grazia divina e che pertanto il Regno dei Cieli restava una meta finale oltremondana, legata alla fine del mondo, al ritorno di Cristo e all’inaugurazione dei “nuovi cieli e della terra nuova” nell’eternità.
Solamente nella nuova percezione del senso del tempo e della vita propria degli uomini del periodo umanistico rinascimentale il concetto di natura divenne sinonimo di mondo, di natura “esterna” (vedi ”Il passaggio dal medioevo al Rinascimento” in “Guardare la storia", ed. Centro culturale C. Peguy) e si iniziò quel lavoro di indagine dei fenomeni che, attraverso vicissitudini varie, sfociò in quella che gli storici hanno denominato “rivoluzione scientifica”.
Dalle sue radici prende corpo il sogno prometeico: l’uomo è al centro dell’universo, microcosmo riassuntivo del macrocosmo, ed è dotato di quelle facoltà, ragione e libertà, che sono in grado di renderlo signore del creato. Da sottolineare è il fatto che tale signoria si svilupperà in termini sempre più operativi, mediante le scoperte scientifiche e le invenzioni tecniche, fino ad esplodere nei secoli XVIII e XIX che, non a caso, vedranno il trionfo e la diffusione dell’Illuminismo prima e del Positivismo poi, cioè delle due correnti culturali che inneggeranno alla Ragione e che si faranno promotrici di un immagine della storia umana caratterizzata da “magnifiche sorti e progressive”, come ricordò ironicamente Leopardi.
Una tappa fondamentale di tale percorso è rappresentata, senza dubbio, dalla filosofia di Cartesio: in essa la ragione prende le sembianze di quell’elemento “divino” che è proprio dell’essere umano (razionalismo) ed il mondo materiale, corpo umano compreso, è concepito come un grande meccanismo tendenzialmente comprensibile e dominabile da parte dell’uomo (meccanicismo).
Sul versante della libertà occorre far menzione, invece, dell’opera di un autore rinascimentale: Pico della Mirandola. Il Proemio introduttivo alle sue 900 tesi verrà considerato da molti critici contemporanei come la magna carta dell’antropocentrismo moderno. In esso Pico inaugura una visione della natura umana inedita, caratterizzata da un’essenza indefinita, mobile: mentre le altre creature hanno una natura precisa, determinata, immutabile, l’uomo, invece, può scegliere che cosa essere, può innalzarsi fino alle creature angeliche o abbassarsi fino alla pura animalità, il suo destino dipende totalmente da lui; la sua è una libertà che va al di là del libero arbitrio raggiungendo un livello simile a quello del Creatore, poiché capace di autodeterminare la propria essenza definitiva. Per tale motivo l’opera di Pico sembra inaugurare il percorso dell’uomo moderno occidentale che lo porterà a quell’autonomia che, una volta messi in crisi i dogmi cristiani, significherà la possibilità per l’uomo di essere finalmente artefice pieno ed unico del proprio destino. Tale interpretazione del De hominis dignitate di Pico, secondo H. De Lubac ("L’alba incompiuta del Rinascimento", Jaca Book), non è corretta, anche se è quella che ha prevalso nella cultura dominante. Libertà, dunque, sempre più sentita e concepita come trascendenza sul mondo e capacità di autodeterminazione.
Tra '700 e '800 l’Europa e il mondo occidentale vivono l’ubriacatura di un progresso scientifico, tecnologico ed economico senza precedenti e sembra pienamente realizzarsi la formula illuministica “sapere=potere”: le conoscenze implicano lo sviluppo di una potenza manipolatrice dell’uomo che lo rende capace di trasformare radicalmente il suo habitat e, con la nascita delle “scienze umane”, gli aprono la strada verso un controllo sempre più esteso della vita individuale e sociale. Prima della tragedia della prima guerra mondiale diversi scrittori statunitensi sono convinti di essere giunti alle soglie di un dominio razionale di tutti i processi e le dinamiche che muovono individui e società e che, pertanto, una nuova era di sicurezza e di benessere sta per iniziare. Non a caso la corrente del “pragmatismo” nasce negli Stati Uniti ed essa, nella sua impostazione di fondo, rappresenta la sintesi di tutto il percorso del razionalismo occidentale: come afferma J. Dewey, la verità è un prodotto dell’uomo, nel senso che il vero sapere consiste in conoscenze che dimostrano la loro effettiva capacità di risolvere problemi, senza limitarsi a “immaginare” ordini delle cose che solo apparentemente consentono all’uomo di dominare il mondo; la trasformazione del mondo in dimora umana è un compito teorico pratico e la scienza e la tecnica, abbinate all’industria, sono in grado di portarlo a reale compimento.
I traumi e gli incubi tremendi sperimentati dall’umanità nel XX secolo hanno ridimensionato la fiducia ingenuamente ottimistica dei secoli precedenti, creando una chiara consapevolezza dei rischi mortali racchiusi nell’aumento della potenza dei mezzi umani, ma non ne ha arrestato il processo di inventività; anzi, mai come negli ultimi decenni essa è esplosa in forme nuove ed esaltanti, come l’era informatica sta ampiamente dimostrando.
La posta in gioco, ormai, è diventata altissima ed oggi ci troviamo di fronte a visioni dell’uomo inimmaginabili fino a poco tempo fa. La punta di diamante del pensiero basato su una supposta potenza creatrice quasi “divina” da parte dell’uomo è rappresentata dai teorici del “post umanesimo”, di coloro, cioè, che sostengono la necessità e la possibilità di superare l’uomo naturale producendo, coi mezzi delle neuroscienze, della intelligenza artificiale e della robotica (e di altre scienze) un uomo nuovo, artificiale, atto a vivere una condizione esistenziale radicalmente diversa da quella sperimentata fino ad oggi dagli uomini biologici. Al di là della descrizione delle varie ipotesi e proposte, più o meno fondate scientificamente, che si trovano tra i fautori di tale progetto (si veda a tal proposito il libro di Mark O^Connell, "Essere una macchina", Adelphi, 2018), qui si vuole sottolineare come, alla radice di tali posizioni, si trovi un’idea di fondo: la convinzione dello status di in definizione ontologica dell’essere umano. Il concetto di “natura umana” come qualcosa di predeterminato, come un’essenza immutabile che precede l’esistenza e si mantiene sostanzialmente invariato nel tempo e nello spazio, è stato disintegrato da numerose filosofie del '900 (a partire da Nietzsche). Il risultato è un immagine di uomo ridotto a un “grumo” di materia intelligente, frutto dell’evoluzione universale, in cui ogni elemento “fisso” e considerato come “naturale” non è altro che un prodotto dei processi storici, mentre il nucleo “sostanziale” è indefinito e suscettibile di una trasformabilità illimitata.
Il tal senso mi sembra che, con “filosofie” come quella del post umanesimo, ci stiamo avvicinando al compimento del sogno prometeico di un uomo creatore di se stesso, dell’ “homo deus”, titolo del libro di uno dei più noti divulgatori di tale pensiero, Y.N.Harari; un uomo finalmente uscito dalla fase infantile e che ha raggiunto la piena maturità, come auspicato dal “sapere aude” (abbi il coraggio di usare la ragione) di kantiana memoria. Esaminando attentamente le sue previsioni profetiche, tuttavia, se ne colgono tutti i limiti. In breve:
Tutti gli adepti parlano di un futuro più o meno lontano, riconoscendo che il livello attuale della tecnologia è ancora inadeguato rispetto alle trasformazioni umane previste. Il vuoto dell’intervallo di tempo è colmato più da una specie di fede dogmatica che da progetti di sviluppo coerenti e realistici trascurando le critiche di coloro che, in maniera più avveduta, accusano i profeti transumanisti di fare fantascienza più che scienza.
La figura umana che emerge dai loro “progetti” perde, in tutti i casi, tutti quei connotati che rendono l’essere umano tale, in primo luogo la libertà che, detto chiaramente, secondo loro non esiste, essendo una delle tante chimere inventate da false conoscenze. L’ ”essere macchina”, meta delle metamorfosi tecnologiche, invece di apparire come un traguardo desiderabile si profila come un incubo tale da fare impallidire Stephen King.
La visione della realtà e dell’uomo che sottende a tali proposte consiste in un meccanicismo aggiornato che, giudicato in termini strettamente razionali e scientifici, lascia aperte più domande, più dubbi e più critiche di quanti sono i problemi che pretende risolvere.
I vantaggi che lo sviluppo delle neuroscienze, dell’intelligenza artificiale, della cibernetica e della robotica stanno già apportando alla vita, al lavoro e alla produzione umani sono “sfruttati” per sostenere la causa di una lotta contro i mali della condizione umana che va ben al di là di tali settori e investe questioni radicali come il dolore e, soprattutto, la morte, per vincere la quale propongono l’abolizione della biologicità in toto, poiché l’essere un organismo vivente contiene in sé difetti strutturali superabili solo mediante il passaggio ad uno status post naturale.
L’obiezione di fondo, tuttavia, resta a mio parere quella che accomuna tutte le proposte, passate presenti e future, riguardanti il bene e la felicità dell’uomo, basate sulla teoria del progresso e sulla prospettiva di una società perfetta finale. Anche i nuovi e futuri individui post umani, ammesso che siano producibili, rappresenteranno una minoranza non solo rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione ancora immersa nella condizione naturale, ma soprattutto rispetto a tutti coloro che li hanno preceduti, agli innumerevoli e oscuri individui il cui senso sarà stato quello di essere materiale inconsapevole sfruttato per la costruzione della Città futura. Ogni proposta di senso della storia che riduca il valore dell’individuo a quello di strumento funzionale ad un fine di bene che lo esclude a priori è disumana, assimilabile alla concezione e alla pratica dei campi di concentramento. Già in Hegel, per ricordare uno dei più famosi sostenitori di tale visione “progressista”, la quasi totalità degli individui vive nella completa ignoranza dei fini ultimi del cammino dello Spirito (essenza ultima dell’umanità e del suo percorso temporale) e solamente l’ ”astuzia della Ragione” fa confluire i piccoli, oscuri e meschini fini particolari nel grande Fine ultimo della storia.
A tale radicale obiezione, al disprezzo orribile che fuoriesce da tutti i pori di codeste teorie, vecchie e nuove, i transumanisti possono rispondere in un unico modo: è l’obiezione tipica di uomini ancora immersi in una mentalità vecchia, piena di parole come “significato”, “amore”, “diritti”, “libertà” ed altre simili che, nella “mente” degli uomini post umani non avranno più luogo; parole, concetti che ora appartengono alla sfera umana, distinguendola qualitativamente dagli altri enti naturali lasceranno il posto all’unico linguaggio in grado di descrivere oggettivamente l’uomo: quello matematico e informatico. Tale è l’esito inevitabile di qualsiasi riduzionismo: un sostanziale nichilismo, se per nichilismo si intende l’annullamento del valore della persona umana reale.
Lunedì 1 giugno 2020