L'infinito conflitto fra etnie dinka e nuer per il controllo della regione

Sud Sudan. La guerra dei cent’anni?

Nessuna tregua fra il presidente Salva Kiir e l'ex vicepresidente Riek Machar nel Sud Sudan, fra inutili tentativi di pace e mediazione dei governi limitrofi (Kenya, Uganda) nel tentativo di mettere fine alle migliaia di morti e sfollati del paese

di Fulvio Beltrami

Il presidente Salva Kiir
Il presidente Salva Kiir

Il conflitto sud sudanese che contrappone il presidente Salva Kiir (di etnia Dinka) all'ex vicepresidente Riek Machar (di etnia Nuer) corre forti rischi di peggiorare e prolungarsi nel tempo con serie complicazioni economiche e politiche a livello regionale. Al momento l’unico constato disponibile è la serie di fallimenti sulle tregue dichiarate e sugli accordi di pace firmati. Ultimo di questi fallimenti si è registrato il 28 agosto scorso quando il leader della ribellione Riek Machar ha interrotto il terzo negoziato di pace svoltosi ad Addis Abeba, Etiopia. Gli attori regionali della crisi: Kenya, Uganda ed Etiopia avevano tentato di imporre la soluzione del sharing power (condivisione del potere) rispettando la carica presidenziale di Salva Kiir fino alla fine del suo mandato che dovrebbe essere prolungato di altri due anni al fine di poter organizzare elezioni democratiche e rappresentative. A questo scopo si pensa di rinviare al 2017 le elezioni presidenziali previste nel 2015.

L'ex vicepresidente Riek Machar
L'ex vicepresidente Riek Machar

I mediatori avevano proposto a Riek Machar il posto di primo ministro, riducendo l’attuale figura di vicepresidente ad una carica formale. Le ragioni del rifiuto vengono spiegate dal portavoce della ribellione James Gatdet. “Il nostro leader Machar non può firmare degli accordi di pace che non risolvono i problemi di base dell’attuale crisi in Sud Sudan. La road map della pace proposta ha come obiettivo quello di rinforzare la posizione del presidente Salva Kiir che rimarrebbe al potere per altri due anni. L’accordo di pace proposto corrisponde alle esigenze del presidente Kiir sostenuto dai presidenti di Kenya e Uganda e dal primo ministro etiope. Le esperienze continentali di power sharing hanno dimostrato che questa soluzione dei conflitti va a danno dell'opposizione, impedendo il cambiamento di regime e il rafforzamento della democrazia”, dichiara il portavoce Gatdet in un comunicato stampa rivolto ai media regionali e riportato anche sul settimanale The East African.

Il giudizio negativo sul power sharing è supportato dai fatti. Nel Kenya, dopo la terribile crisi post elettorale del 2007 che ha portato il paese sull’orlo della guerra civile e del genocidio, la Grande Coalizione formatasi nel 2008 e durata per quattro anni ha esclusivamente favorito il regime controllato dall’etnia Kikuju, condannando l’oppositore storico Raila Odinga e il suo partito Orange Mouvement alla sconfitta elettorale. Nello Zimbabwe il principale oppositore Morgan Tsvangirai, ex primo ministro, è stato completamente annientato all’interno del governo di coalizione con il presidente Robert Mugabe formatosi nel 2008. La scelta di interrompere i negoziati di pace attuata da Riek Machar pone il leader e l’intera ribellione in una delicata situazione. Machar sta perdendo il sostegno degli Stati Uniti e dell’Etiopia che hanno deciso di orientarsi verso l’attuale presidente Kiir, che gode del sostegno dell’Uganda e della Cina fin dall'inizio della crisi, il 15 dicembre 2013. Al momento rimane solo il sostegno politico finanziario e in armi del regime di Khartoum.

Un’alleanza che potrebbe essere rovinata dalle relazioni diplomatiche sotterranee tra Washington e Khartoum. Pur considerando il Sudan uno stato sponsor del terrorismo internazionale e continuando a mantenere pesanti sanzioni internazionali, la Casa Bianca dal 2010 sta allentando la guerra fredda contro il presidente Omar al-Bashir, in quanto il Sudan è ora considerato un paese strategico per impedire l’avanzata dell’estremismo islamico in Africa e le sue catastrofiche conseguenze registrate in Libia, Mali, Nigeria, Repubblica Centrafricana e Somalia. Sudan e Stati Uniti sembrano ora avere come nemico comune il network terroristico della Al-Qaeda Magreb divenuto totalmente autonomo da Al-Qaeda e composto da forti movimenti islamici quali Boko Haram in Nigeria, Al-Shabaab in Somalia e Séléka in Centroafrica.

L'Igad, Inter-governmental Authority on Development
L'Igad, Inter-governmental Authority on Development

Anche il sostegno del contingente di pace Onu in Sud Sudan UNMISS è destinato a venir meno. In questi sei mesi di conflitto UNMISS ha varie volte protetto i leader della ribellione e loro fornito ingenti quantitativi di armi e munizioni nascoste nei convogli umanitari. Questo prezioso aiuto era offerto sotto indicazione degli Stati Uniti all’epoca alleati di Machar. L'Inter-governmental Authority on Development – IGAD (Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo), ente regionale mediatore della pace in Sud Sudan, ha concesso altri 45 giorni alle parti belligeranti per trovare un accordo prima di imporre pesanti sanzioni e decidere un eventuale intervento armato per ristabilire la democrazia nella giovane nazione sorta nel luglio del 2011. Le minacce di un intervento militare fatte dalla IGAD e dalla Comunità Internazionale sembrano non avere alcun effetto deterrente su Machar e Kiir a causa dell’incapacità di inviare un contingente di pace africano e di rafforzare l’esistente contingente di caschi blu, obiettivi fissati per marzo-aprile 2014 ma mai raggiunti a causa delle complicate alleanze ed interessi internazionali in continuo mutamento.

Il Movimento per la liberazione del popolo sudanese
Il Movimento per la liberazione del popolo sudanese

L’unico paese che ha inviato truppe in Sud Sudan è l’Uganda che ha deciso di appoggiare attivamente il presidente Kiir. L’esercito ugandese è l’unica entità militare che ha fino ad ora impedito a Riek Machar di conquistare il potere nonostante che disponga del 70% delle forze armate del paese. In questa situazione di caos e di guerra etnica gli interessi economici giocano un ruolo di primo piano. Il Sud Sudan è il quinto produttore petrolifero più importante del continente. Fino ad ora l’oro nero è stato monopolizzato da multinazionali cinesi, indiane e malesiane. Evidentemente Stati Uniti e Unione Europea hanno deciso di interrompere questo monopolio per compensare il sostegno finanziario e politico al SPLM (Movimento per la Liberazione del Popolo Sudanese) durante i lunghi 25 anni di guerra civile con il nord Sudan. Le risorse petrolifere, che rappresentano il 98% del PIL nazionale sono comunque già compromesse in quanto il governo di Salva Kiir ha impegnato la produzione dei prossimi quattro anni come pagamento del sostegno militare ugandese e cinese.

Il nuovo fallimento degli accordi di pace concretizza sempre di più il rischio che l’attuale guerra civile diventi perenne nel paese con due distinte linee di fronte. Un rischio rafforzato dalla mentalità delle due principali etnie del Sud Sudan: Dinka e Nuer che hanno già affrontato una guerra di 25 anni contro Khartoum. Nessuna speranza può provenire dalle giovani generazioni in quanto vissute e cresciute in uno stato di perenne conflitto fino al 2011 che ha trasformato la guerra in una banale realtà quotidiana. Una realtà che fino ad ora ha creato oltre 180.000 morti e 1,8 milioni di sfollati. L’economia è completamente distrutta e lo spettro della fame minaccia la nazione.

Giovedì 4 settembre 2014