I videomaker si sentono sfruttati. il colosso americano Google perde terreno
L'azienda di viale Mazzini ha ritenuto di rivedere l'accordo con YouTube (di proprietà di Google) perché la royalty corrisposta con la pubblicità venduta su migliaia di videoclip caricati è ritenuta troppo bassa
di Aldo Vincenti
Il fenomeno sudcoreano Psy (nella foto) divenuto un fenomeno musicale col suo Gangnam Style, lanciato sulla rete |
Caricare un video su YouTube non genera profitti. Negli ultimi anni, le aziende editoriali si sono servite della gratuità del portale di proprietà del colosso Google per caricare video a costo zero, cioè risparmiando sui costi di gestione di server, piattaforme e spazio web. I piccoli editori, i videomaker, ma pure i grandi hanno trovato in YouTube un'opportunità e l'hanno scelto per la sua popolarità, oltre che per l'affidabilità. Sta di fatto che Google grazie ai contenuti pubblicati dal popolo della rete ha fatto enormi profitti. Miliardi di dollari (e di euro) grazie alla vendita di pubblicità e videospot trasmessi qualche secondo prima del video, con la possibilità di poter, in alcuni casi, saltare il video promozionale entro pochi secondi dal suo inizio, per lasciar il posto al contenuto vero e proprio, quello cliccato dall'utente.
Ma ci sono lamentele verso il colosso di casa Google che hanno origini ancor più remote. Già anni fa il popolo della rete, gli utenti, cominciarono a caricare videoclip musicali autoprodotti, con la base musicale di grandi canzoni di successo, e titolando la nuova composizione proprio col titolo della canzone, che veniva accompagnata da immagini e foto di editor improvvisati. I discografici cominciarono subito a realizzare che quel mezzo così potente stava generando un profitto, appannaggio esclusivo dei conti correnti di Google, in barba alle leggi sul copyright, termini e condizioni di utilizzo, che tuttavia l'utente doveva e deve accettare prima della sua iscrizione. Ma quanti utenti, prima di iscriversi a un sito, che sia YouTube, Google, o altri, leggono davvero quei lunghi codicilli? Sta di fatto che a un certo punto, attraverso l'accordo Vevo, Google dovette sborsare fior di soldi alle major consorziate, che cominciarono a pubblicar la loro musica, coi videoclip originali, e in modo legale, e Google a rimuovere i contenuti pirata generati da utenti fanatici e libertini.
Se il problema era legato alle produzioni audio ci fu buona ragione di ritenere che la stessa questione si sarebbe ripresentata anche per i filmati della Tv. Gli ascoltatori di Canale 5 entusiasti di vedere lo scherzo a quel calciatore o a quella velina cominciarono a digitalizzare le loro Vhs e a trasferirle su YouTube, collezionandole in un proprio canale.
Seppur "in buona fede" il contenuto pubblicato dall'utente era del tutto illegale, tanto che Mediaset dovette chiederne la rimozione, come sovente è accaduto per mezzo dello studio legale Previti. Oggi, su YouTube non è presente alcun contenuto Mediaset, perché non è giusto che un contenuto prodotto dall'azienda di Cologno Monzese, vada ad alimentare un sistema pubblicitario di miliardi di dollari di un colosso americano che dagli Stati Uniti ha raggiunto l'Italia. I profitti generati in Italia non sono neppure tassati, lo sono in parte, tanto che una recente proposta di legge del pugliese Francesco Boccia aveva tentato di introdurre una "web tax" per fare in modo (almeno) che quei profitti totalizzati dal colosso americano coi soldi italiani generasse un tornaconto allo Stato, per quella movimentazione enorme di denaro. Il popolo della rete reagì ingenuamente interpretando quella proposta come una limitazione alla libertà del web, come se Google facesse davvero gli interessi reali degli utenti navigatori.
Sappiamo bene che così non è. Google risponde alle regole del commercio e della pubblicità, e specie negli ultimi anni, ha raggiunto l'apice del profitto e della raccolta pubblicitaria. È giusto, quindi, che lo Stato pretenda di tassare, di avere una percentuale, su quanto gli americani vendono sul suolo italiano? Persino la Rai, che con Google aveva un contratto speciale e percepiva 700.000 euro l'anno di royalty pubblicitaria dalla vendita di Google coi contenuti dell'azienda italiana, ha ritenuto necessario fare marcia indietro e rimuovere quarantamila prestigiosi filmati che d'ora in avanti si potranno vedere esclusivamente sul portale Raitv. Da viale Mazzini arriva anche la conferma che l’opzione di ospitare i video dell'archivio Rai rimane aperta a tutte le altre piattaforme, ma solo se verranno rispettate le medesime condizioni poste dalla Rai a YouTube: sarà la Rai a decidere cosa caricare, quale materiale; il logo Rai dovrà essere sempre e comunque ben visibile; la Rai deciderà quale pubblicità accettare e a quale prezzo.
Dopo Mediaset e Rai molti editori e videomaker stanno facendo un passo indietro e rimuovendo centinaia, migliaia di video, perché generare contenuti per il portale di Google odora di sfruttamento. E un dietrofront arriva anche sul fronte della pubblicità pay per click. Molti utenti che avevano aderito al programma di Google secondo cui metti i loro banner e loro ti corrispondono un tot di millesimi di centesimo si è rivelato per molti un flop ad esclusivo vantaggio di Google. E così i banner sono stati rimossi con un effetto a catena che sta diventando virale. Motori di ricerca e social network come Facebook generano miliardi di profitti dalla vendita pubblicitaria mentre chi realizza il video, pubblica l'articolo o il link non guadagna nulla. Un polverone fu sollevato dal magnate australiano Rupert Murdoch, che in Italia è proprietario della piattaforma satellitare Sky.
Murdoch, quando Google cominciò a inserire i suoi giornali online presenti in tutto il mondo sulla piattaforma Google News, si rese conto che pur essendoci un vantaggio in termini di ritorno di immagine, di utenti veicolati dal motore di ricerca per articoli verso i suoi giornali, la produzione dei contenuti per lui aveva avuto un costo, il pagamento di una corresponsione verso i giornalisti per il lavoro svolto. Per Google, invece, quel link indicizzato e memorizzato nella cache non era costato nulla ma la sua presenza gli generava notevoli profitti. Nel 2011 Mediaset vinse una causa con Yahoo: la piattaforma aveva ospitato estratti video da programmi prodotti dal gruppo Mediaset e il tribunale aveva accolto l’istanza e aveva fissato a 250 euro la penale per ogni video non rimosso e per ogni giorno di ulteriore permanenza online per violazione del diritto d'autore. Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, nel 2008 aveva già fatto causa, vincendola, a YouTube, quindi a Google, per lo stesso motivo.
La vendita di pubblicità sui videoclip inseriti dagli utenti di YouTube genera fatturati miliardari ogni anno |
Qual è la verità? È giusto caricare un video su YouTube, o è meglio avere una piattaforma proprietaria? Senza dubbio la miglior soluzione è la seconda (per chi può permettersela). Bisogna comprendere che i "mi piace" collezionati sulla propria pagina Facebook così come le migliaia di visualizzazioni collezionate su YouTube non fanno altro che alimentare un sistema di business in cui l'unico beneficio, nel 99 per cento dei casi, è solo delle multinazionali americane. Tutti gli altri avranno "lavorato" gratis. Avranno inserito i loro splendidi video montati e con effetti speciali, avranno creato valore, e si saranno sentiti Re per una notte. È il quarto d'ora di celebrità di Andy Warhol: quello che ti fa sentire un dio ma con le tasche vuote.
Sabato 7 giugno 2014