In tutto lo stato ha riscosso appena 6 milioni di euro dai fatturati dei colossi americani

Renzi cancella la «webtax», Google festeggia

L'Italia perde un'occasione di autorevolezza

La misura protezionistica formulata dal presidente della Commissione Bilancio, Francesco Boccia (Pd), avrebbe obbligato le aziende straniere che vendono in Italia a vedersi tassare i profitti come già accade per quelle italiane. Ma c'è il no di Renzi

di Roberto Fonte

Il quartier generale di Google a Mountain View, California
Il quartier generale di Google a Mountain View, California

Cancellare la “webtax” è stata una mossa sbagliata. E Matteo Renzi si gongola su Twitter, quasi avesse collezionato chissà quale merito. Facile per lui scegliere la strada più semplice di fronte a un problema grave, ma si sa, il politico dice e fa ciò che il popolo vuole sentirsi dire. Durante il Consiglio dei ministri, ha ritenuto di cancellare la “tassa sul web”, la “webtax” appunto, quasi per scongiurare un “pericolo”, rimandando il dibattito se sia giusto o non giusto, e la decisione, in sede europea.

Molti italiani (ma non tutti) l’avevano percepita come una legge ingiusta, perché parlare di “webtax”, cioè letteralmente parlare di “tassa sul web”, alle orecchie dei più ingenui equivarrebbe a mettere una tassa sulla rete “Internet”, cioè sul “mezzo di comunicazione” Internet. In Italia, qualunque sia il Governo, quando una legge può “sembrare” scomoda agli occhi dei cittadini si preferisce metterla da parte, stracciarla, rimandarla, lasciarla nel cassetto, per far affrontare il problema a chi verrà dopo e occuparsi di altre cose. Ma la webtax non è una cosa secondaria, anzi. È una priorità assoluta, se pensiamo ai fatturati generati dalle aziende americane sul nostro territorio col loro lavoro di vendita di pubblicità. Ad oggi i colossi americani che offrono servizi via Internet hanno pagato solo pochi milioni di euro (appena 6) a fronte di un fatturato multimiliardario, e si legga bene, si parla di fatturati di “miliardi” e non di “milioni” di euro.

L'onorevole del Pd, Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio
L'onorevole del Pd, Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio

Ma facciamo un passo indietro. Si è scelto di rimandare tutto nelle mani della Comunità europea perché per il Governo è la scelta più facile per salvaguardare il consenso popolare e la propria posizione. E pure Renzi, da politico/segretario/e leader del suo partito ha ritenuto di doverlo fare. E pensare che proprio dal Pd era partita l’iniziativa di mettere la neo tassa, ma i suoi promotori hanno peccato nella comunicazione, perché la legge è buona, giusta, legittima, ma è stata spiegata male, non è stata compresa, ed è quindi stata ritenuta quasi un attacco alla libertà sul web. Il promotore della “webtax” è il presidente della Commissione Bilancio, l’on. Francesco Boccia (Pd) e la bozza del testo aveva come primo firmatario Edoardo Fanucci (anche lui del Pd). Boccia tanto ha fatto per spiegare come siano necessari “Fatti e non parole”. “Con la webtax – dice – in vigore dal 1° gennaio +137,9 mln nelle casse dello Stato. Lo scorso anno le stesse aziende multinazionali che operano nel mondo online avevano pagato, tutte insieme, solo 6 milioni di euro”. Molti avranno pensato all’ennesima inutile tassa, o addirittura a un attacco alla democrazia. Ma perché?

Se agli italiani dici “Stanno mettendo la webtax” penseranno che si stia tassando Internet, cioè un mezzo di comunicazione che da sempre è considerato simbolo di libertà. Libertà di pensiero, libertà di espressione, per esempio. Libertà molto sentite in Italia, soprattutto se si pensa a Internet come il mezzo che ha “riscattato” i cittadini dalla Tv, da sempre la più persuasiva, quella che negli anni, in modo unidirezionale e senza possibilità di replica, ha controllato e formato gli animi e le coscienze degli italiani dicendogli chi e cosa dovessero votare. Internet come mezzo per contrastare lo strapotere di Berlusconi, l’editore che detenendo la maggior parte dei canali dello spettro delle frequenze Tv, ha sempre avuto l’ultima parola, plasmando se stesso come leader partitico, e i suoi come personaggi di punta del dibattito politico italiano. Ed ecco che Internet, di più in Italia che in altri Paesi del mondo, viene vissuto come un mezzo garante di libertà, e quindi guai a chi lo tocca. E se lo Stato ha bisogno di rilanciare il Paese detassando lavoro e imprese, se diminuisce le aliquote di tassazione come farà a continuare a garantire i servizi fondamentali? Scuola, sanità, servizi pubblici. La webtax poteva essere una risposta, un buon modo per riscuotere soldi “diversi”. Perché (non si dimentichi questa cosa) se vogliamo essere curati in un buon ospedale, o se vogliamo che i nostri figli possano studiare in scuole autorevoli e sicure, da qualche parte i soldi devono uscire. Non si può tagliare il cuneo fiscale e poi non trovare le risorse che consentano di non impallare il Paese. Ma non è questo il punto.

Facebook, nella sede di Palo Alto
Facebook, nella sede di Palo Alto

Non si faccia più l’errore di chiamarla, letteralmente, “tassa sul web”, perché così non è. Internet è libero, lo è ora e speriamo sempre, su questo siam tutti d’accordo. Personalmente credo che sia libero anche con la promulgazione di una webtax. Ma allora, se Internet è libero anche con la tassa, che cos’è questa webtax? Perché i cittadini l’hanno vista come una tassa ingiusta? “È una tassa anti-Google”, ha titolato qualcuno. Non è una tassa anti-Google, sfatiamo pure questo. La webtax non è una tassa contro qualcuno, non è una tassa che va contro un’impresa. La webtax è la tassa che obbliga un’azienda straniera che vende in Italia a pagare le tasse in Italia e non all’estero, qualunque azienda essa sia, si chiami Google, Facebook, Twitter, Amazon, Linkedin, ecc. Vedersi tassare il profitto, cioè il fatturato, esattamente come tutte le aziende del mondo, è una cosa normale, il concetto di tassazione del fatturato (o delle transazioni, anche se in misura diversa) sono cose assolutamente normali. D’altronde, sono tassati i fatturati del bar sotto casa, del piccolo artigiano, o della multinazionale Ferrero che produce dolci e cioccolato, e allora perché un’azienda straniera che mette radici in Italia non deve vedersi tassare i profitti?

È un discorso di equità, di giustizia, di uguaglianza. Le imprese italiane che operano nella pubblicità devono lottare di più rispetto ai colossi americani, nonostante si muovano sul territorio allo stesso modo e nello stesso settore economico. In Italia esistono aziende che offrono gli stessi, medesimi, identici servizi di Google e Facebook. Cioè in Italia esistono aziende di Social network, aziende che offrono servizi di “motore di ricerca”, aziende editrici di giornali online, che basano il proprio business sullo stesso modello dei colossi americani, cioè lavorano con la raccolta pubblicitaria. Ne vogliamo citare alcune? Reteluna, per esempio, non è solo un Network di quotidiani online in tutta Italia. Reteluna Network, Reteluna Elezioni, Reteluna Blog, Reteluna Radio, Reteluna Forum sono solo alcuni dei tanti servizi via Internet offerti dalla nostra azienda che per sostenersi vende pubblicità. Ma poi ci sono Volunia, Egomnia, Spreaker, ecc. Per quale motivo, le nostre imprese italiane, che per certi aspetti offrono servizi migliori rispetto a quelli offerti di Google (si pensi a Reteluna Elezioni, Google voleva imitare il servizio ma non ci è riuscita), devono pagare le imposte sulla pubblicità a peso d’oro e i colossi americani no? Vi sembra giusto che le aziende americane vengano in Europa (in tutti i Paesi dell’Europa, Italia, Francia, Spagna, Germania, ecc.) per vendere pubblicità senza essere tassate? Come abbiamo detto il modello di business, cioè il mercato in cui queste imprese italiane operano è identico a quello delle aziende americane. Cioè ognuna di queste aziende, italiane e americane determinano i loro profitti dalla vendita pubblicitaria. E allora perché non giocare ad armi pari? Qualcuno sui social network ha detto “I servizi di Google sono più utili di altri servizi italiani”. Ma vi sembra un buon motivo, una buona ragione per cui giustificare e detassare i profitti multimiliardari delle imprese americane a discapito delle nostre? A noi non sembra giusto. Per questo insistiamo sull’utilità di questa legge. Se le multinazionali americane come Google o Facebook si sentono autorizzate a vendere pubblicità alle imprese italiane clienti, senza che sui loro profitti ci sia alcuna tassa, perché noi dovremmo pagarle? Siamo spinti da uno spirito analogo, che ci porta a pensare, arrivati a questo punto, di portare anche le nostre aziende all’estero, per esempio in Irlanda, per fare in modo che anche noi possiamo continuare a inseguire il profitto senza che lo Stato pretenda nulla da noi. E poi peggio per coloro che si lamentano che lo Stato è inefficiente perché non ha mai soldi. Queste aziende americane hanno aperto in Irlanda la loro succursale, la loro “divisione europea”, perché non dovremmo farlo anche noi? Sapete cosa significa questo? Qualora dovesse succedere, l’Italia anziché riprendersi perderà ulteriori posti di lavoro, mentre le aziende continueranno comunque a perseguire il profitto. Perché si badi bene, a un imprenditore non cambia nulla aver la sede legale in Italia o in Irlanda. Ovviamente questo non succederà, ma ho voluto estremizzare per farvi capire che non è giusto trattare diversamente aziende italiane e straniere che operano nello stesso mercato di riferimento e sullo stesso territorio. Quando gli americani vendono pubblicità in Italia si trasferisce denaro dai conti correnti degli investitori italiani clienti verso conti correnti esteri. Si permetta quindi allo Stato, quanto meno, di costringerli ad avere Partita Iva in Italia, per tassarli allo stesso modo di come veniamo tassati noi, altrimenti non si dica che questo è uno Stato di diritto. Come editori italiani che lavorano sul web pretendiamo regole uguali nei confronti di tutti.

La sede di Twitter
La sede di Twitter

C’è poi un discorso morale, che gli italiani non hanno compreso. Collezionare “Mi piace” su Facebook e “visualizzazioni” su YouTube non serve a nulla. I nostri “like” non dimostrano nulla al potenziale investitore, piuttosto aumentano il prestigio dei siti americani, tanto che la “pagina” generata altro non è che uno strumento nei mani di Google, Facebook e Twitter che dimostra ai loro investitori che in realtà sono loro il vero punto di riferimento, la piattaforma utilizzata, il canale che genera utenti e quindi titolato a riscuotere pubblicità. Col nostro “lavoro” di procacciamento di nuovi “Mi piace” diamo loro prestigio, ed è sui nostri contenuti che loro vendono pubblicità. Col risultato che un quotidiano online che apre una pagina su Facebook continuerà ad avere difficoltà a vendere pubblicità, perché avrà spostato l’attenzione del potenziale investitore non sui suoi tanti “likes” ma sul mezzo che ha dato la possibilità di collezionarli. “Ma ce l’avete la pagina su Facebook?”, chiederanno i potenziali clienti, facendo passare inesorabilmente in secondo piano il quotidiano, come se il sito Facebook fosse più importante di qualsiasi altro sito.

Rupert Murdoch, l'editore australiano di News Corporation protestò contro Google per i contenuti dei suoi giornali utilizzati illegittimamente
Rupert Murdoch, l'editore australiano di News Corporation protestò contro Google per i contenuti dei suoi giornali utilizzati illegittimamente

Con buona pace di Mark Zuckerburg che a 28 anni era il giovane più ricco del mondo anche grazie ai soldi italiani finiti all’estero e mai tassati (o poco tassati). Facendo un altro esempio, quando un utente carica un video su YouTube (per esempio un servizio di Scherzi a parte) Mediaset manda immediatamente una lettera di diffida dal proprio studio legale chiedendo a Google di eliminare quel contenuto da YouTube perché è Mediaset il legittimo proprietario del video e non è giusto che Google ne benefici per generare utenti e vendere pubblicità. Qualche anno il magnate editore australiano, Rupert Murdoch, che in Italia è proprietario di Sky, e che con la sua News Corporation detiene Tv e giornali (anche online) in tutto il globo, fece un’ingiunzione nei confronti di Google aprendo un dibattito di notevole rilevanza. Murdoch chiese a Google di eliminare dall’indice del motore di ricerca i risultati degli articoli dei propri portali online perché non trovò giusto fossero utilizzati come contenuti per generare utenti (e vendere pubblicità). Si badi bene, Google potrebbe dire che sta offrendo un servizio utile. È vero. Ma non dimentichiamo che quegli articoli, frutto di un lavoro intellettuale di giornalisti e blogger, per un editore è un onere costante da pagare tutti i giorni. Google deve la sua fortuna grazie alle pagine di siti web generati da Murdoch e da tanti altri grandi e piccoli editori che da tutto il mondo come lui ogni giorno devono pagare un lavoro intellettuale e sforzarsi di far quadrare i conti. E allora è bene che quei contenuti restino esclusivamente sotto i “domini” dei legittimi proprietari, in barba alle regole del web secondo cui “ormai Google è un colosso, quindi o ci sei o sei fuori”. E se i servizi americani possono sembrare agli occhi di qualche stolto più interessanti dei nostri, non si faccia l’errore di giustificarne l’elusione fiscale. Gli italiani non dimentichino che mentre ci si prodiga a raccogliere “likes” sulla propria pagina, Zuckerburg si pone il problema se comprarsi un Aston Martin o una Ferrari, o se fare le vacanze a Dubai o in Europa. Anche grazie ai profitti derivanti dalla vendita sul territorio italiano. Alla faccia della disoccupazione e della crisi.

Venerdì 28 febbraio 2014