missione in casa nostra

Una testimonianza legionaria tra i migranti

Spesso gli immigrati sono percepiti come un problema, e lo sono, ma non solo

di Gianluca Valpondi

Il campetto delle scuole medie statali di Ovada (Al)
Il campetto delle scuole medie statali di Ovada (Al)
Uno degli stati whatsapp di Kelvin
Uno degli stati whatsapp di Kelvin

La Legio Mariae deve arrivare a tutti. Con questo pensiero passavo, più e più volte, davanti al campetto da calcio in cemento vicino alle scuole medie, un tassello della mia tarda infanzia e prima giovinezza, diventato ormai un pezzetto d’Africa per l’assidua frequentazione di immigrati africani di recente sbarco. E mi chiedevo: “Ma questi come li approcciamo?”. Ne parlavo con l’amico e fratello legionario Stefano e dicevo che prima o dopo in qualche modo dovevamo entrare anche in quel mondo. Del resto gli appelli della Chiesa e di papa Francesco, nonché del nostro vescovo, erano chiari, era chiaro che non c’era più bisogno di andare chissà dove per essere missionari del Vangelo, perché la Provvidenza (diciamo manzonianamente “provvida sventura”?) i lontani ce li aveva portati qui. Ma come fare? La barriera culturale, l’ostacolo della lingua, la tendenza a ghettizzarsi di queste comunità, non molto integrate nel territorio... Eppure nel giocare a pallone non erano molto diversi da noi e dunque decisi di rispolverare le scarpette da calcetto, infilai gli occhiali vecchi “da battaglia” (perché le lenti a contatto non mi si confanno) e scesi in campo, cioè prima stetti a guardare dagli “spalti” (in panchina), finché qualcuno si decise a tirarmi dentro e allora cominciarono le danze. Dopo qualche settimana ero tutto rotto, ma intanto avevo creato un legame piuttosto solido con Goodluck, nigeriano. Ebbi modo anche di constatare che in quanto a civiltà non sempre i nostri ragazzotti italiani doc hanno molto da insegnare ai nuovi arrivati, anzi. Come quando il frequentatore di oratorio e campi estivi parrocchiali, nonché incallito seppur giovanissimo bestemmiatore, a furia di bestemmie suscitò la reazione comunque pacata del giovane africano probabilmente musulmano, che gli disse “Dio è grande, non è porco”. Dato che il ragazzotto insisteva, dovetti intervenire e allora si sgonfiò e divenne un po^ più pecorella, anche perché forse si ricordò che ero stato suo educatore all’oratorio. Pian piano conobbi “Bambino” (così lo chiamavano gli italiani al campetto, e una volta mi chiamò “papà”), Brian (lo aiutai a compilare un modulo on-line per la ricerca di un lavoro), Udoka (trovò un lavoretto tramite miei amici), Kelly (musulmano, chiede l’elemosina davanti al supermarket vicino a casa mia: lo incrocio sovente), Joseph e Kelvin (due giovani amici che studiano all’alberghiero; Joseph: un pezzo di pane direi; Kelvin: molto sensibile culturalmente), Moses (anglicano, una forte fede cristiana) e altri. Tutti manifestamente credenti, per lo più cristiani. Udoka e Goodluck sono venuti anche alla santa Messa domenicale con me e li ho presentati al parroco e ad uno dei viceparroci. Ho idea che queste persone in generale hanno molto da insegnarci e che hanno anche grande bisogno del nostro aiuto e sostegno, materiale, psicologico e spirituale, anche perché pian piano prendano coscienza dei problemi delle loro terre di origine divenendo protagonisti del loro riscatto, e magari evitando che cadano nella rete dei testimoni di Geova o peggio. Chiaramente come legionari deleghiamo ad altri, senza disinteressarcene, l’aiuto materiale diretto, che non ci compete, ma è bene seguire per quanto ci è possibile le vicende esistenziali di questi fratelli che vengono da lontano e scopriremmo, chessò, che Goodluck, morto il padre, iniziò a lavorare a 5 anni, prima che in Italia cominci la scuola dell’obbligo.

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Lunedì 17 giugno 2019