Reportage nel quartiere a luci rossi di kampala (Uganda)

Kabalagala, luci e ombre: vite dietro un sipario

Vite di donne nella miseria della prostituzione

Raccontate con gli occhi del fotoreporter Damiano Rossi, che ha girato lungo il quartiere slum della città: un universo a noi sconosciuto, di dodici donne strappate alla vita, al lavoro di madri

di Fulvio Beltrami

Posso resistere a tutto tranne che alle tentazioni”. Una frase di Oscar Wilde che riassume l’anima del libertino, amante della vita, che sa cogliere l’essenza del piacere consapevole che “dove c'è piacere non c’è peccato”. In Uganda, la potenza economica e militare della regione dei Grandi Laghi, la tentazione per eccellenza, dove piacere non è peccato, si incarna in un luogo fisico, reale, fatto di odori, luci, sudore e umanità viva: il quartiere di Kabalagala (Banana dolce) il termine in lingua Luganda da cui prende nome il quartiere, precedentemente noto come “Kisugu”.

Un quartiere dove gli scrittori maledetti: Oscar Wilde, Edgard Alan Poe, Emilio Praga, Vittorio Imbriani, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Alejandra Pizarnik, Jacques Prevel, e Jack Kerouac, si troverebbero a loro agio tra prostitute, ladri, rasta e faccendieri che, in fondo, credetemi, sono la parte più sincera e umana di ogni società. Svilupperebbero un amore viscerale per Kabalagala e sceglierebbero di viverci e viverla come spesso ho fatto io.

I volti violati delle donne di Kagalabala. [foto Damiano Rossi]
I volti violati delle donne di Kagalabala. [foto Damiano Rossi]

Il gusto primordiale di vivere Kabalagala è rappresentato dalla prostituzione, senza costrizioni, libera e senza pudori. I bianchi per bene, quelli delle Ong e delle rappresentanze diplomatiche, inorridiscono al nome di Kabalagala ed etichettano i loro pari che lo frequentano come squallidi puttanieri. I primi appartengono alla categoria dei grandi uomini che sfornano montagne di migliori intenzioni e spesso producono le opere peggiori. I secondi appartengono giustappunto alle anime maledette che per generare opere secolari hanno necessità atavica di immergersi nell'umanità e nel peccato.

Scarpette adagiate al lato di un letto in un'abitazione precaria. [foto Damiano Rossi]
Scarpette adagiate al lato di un letto in un'abitazione precaria. [foto Damiano Rossi]

Il fotoreporter Damiano Rossi, che da anni vive in Uganda, e vero outsider della fotografia d’autore, ci racconta con estrema lucidità, attraverso la magia della pellicola, un universo di Kabalagala sconosciuto anche al sottoscritto. Quello relegato nello slum nascosto dalla via principale piena di gioia, musica e dove tutto odora di bello e sessualmente attraente. È il cono d’ombra di Kabalagala che ha colto l’interesse di Damiano libero dal richiamo delle sirene.

Attraverso volti di donne disperate, sieropositive, le ultime della società ugandese appartenenti al quarto livello della prostituzione, ci racconta storie di un mondo, lo slum nascosto di Kabalagala, dove l'ingiustizia prevale e niente è distribuito equamente tranne il dolore. Un mondo dimenticato da tutti e che non troverà mai posto nei progetti di sviluppo del presidente Yoweri Museveni.

Ma non continuiamo lo sproloquio oltre e lasciamo parlare Damiano, l’outsider della fotografia che, con noi poeti maledetti condivide non il piacere della carne, ma il piacere di vivere tra la vera umanità. Damiano ci ricorda senza ombra di dubbio che dietro ogni realtà piacevole c’è sempre qualcosa di tragico.

Eccovi il racconto di Damiano.

Un'altra abitazione nello slum di Kampala. [foto Damiano Rossi]
Un'altra abitazione nello slum di Kampala. [foto Damiano Rossi]

Chiunque sia stato a Kampala ha sentito parlare o si è recato, almeno una volta, a Kabalagala, la via “a luci rosse” della città, la via del piacere, sempre trafficatissima e in piena attività, ventiquattr'ore al giorno, con locali, pub, negozietti e, soprattutto, con il più alto numero di prostitute della capitale, che qui si aggirano, soprattutto di notte, alla ricerca di clienti. Attraverso le storie e le immagini di dodici donne e delle loro vite tra prostituzione e l’essere madri, si è cercato di capire cosa realmente accade dietro a questo scintillante sipario che è Kabalagala, cosa davvero si nasconde in uno dei peggiori e difficili slum della capitale.

Per i “bianchi” (bazungu in lingua swahili, muzungu al singolare) che vivono in Uganda, Kabalagala è sinonimo di prostituzione, di quella più misera e a buon prezzo. Per questo motivo dire tra gli espatriati di Kampala che si va a Kabalagala, significa dire che si va “a puttane” e quindi si è guardati male. Dopo quasi tre anni basato a Kampala e dopo aver girato parecchio per locali, sono giunto alla conclusione che qui ci sono quattro livelli di prostituzione. Il primo riguarda quella di classe, le escort che in pochi si possono permettere, per cifre che raggiungono le diverse centinaia di dollari.

Il secondo è la prostituzione che ha come clientela la borghesia ugandese e i “bianchi” delle varie Ong (Organizzazioni non governative), associazioni, agenzie umanitarie, privati, turisti, etc…, localizzata nei locali più alla moda di Kampala, situati nella parte opposta della città rispetto a Kabalagala, con cifre sui 50-100 dollari al massimo; il terzo livello è quello appunto di Kabalagala, dove le prostitute si fanno pagare 10-20 dollari (25.000-50.000 scellini) e la clientela è rappresentata da bianchi un pò squattrinati e ugandesi che non vogliono spendere troppo.

Tra il secondo e il terzo livello non vi è però quella gran differenza: il 50% delle prostitute, infatti, che durante la settimana sono a Kabalagala e chiedono appunto 10-20 dollari, sono poi le stesse che nel week-end sono dalla parte opposta della città, nei locali più alla moda, a chiedere 50-100 dollari a quei bianchi che si credono furbi, non vanno a Kabalagala perché troppo sporca e mal vista e credono che le loro “prede” siano di classe. Infine vi è l’ultimo livello, quello appunto del reportage in questione. Il livello più misero, quello più nascosto, di cui non si sa neppure l’esistenza. Quando ho raccontato a certi amici (ugandesi e non) del reportage che stavo facendo, stentavano a credere che ci fosse questo tipo di prostituzione.

Credevano che già Kabalagala fosse l’ultimo stadio. Invece no. Quella trovata all’interno dello slum appena dietro Kabalagala è una situazione tristissima: sembra di essere in un mondo a se stante, misero, dove il degrado ambientale va di pari passo con un tessuto sociale inesistente, dove tutta la miseria si concentra, il punto di arrivo e di non ritorno per i più poveri dei poveri. La miseria urbana è ben peggiore di quella rurale, non vi sono più legami, rapporti d’amicizia, regole.

Grazie a Mark, ugandese di quarant’anni e fondatore della associazione locale “Needy Children Organisation – NCO” (Organizzazione dei Ragazzi Bisognosi), e che si prende cura di circa 300 bambini dello slum, il 90% dei quali figli delle stesse prostitute, sono riuscito a incontrare e fotografare dodici donne che, per sopravvivere in questa miseria, per non sprofondare nel fango dello slum, devono vendere il proprio corpo a cifre che vanno dai 3.000 scellini (1.2 dollari) ai 10.000 scellini ugandesi (4 dollari). La concorrenza è talmente alta che è il cliente che decide le regole, l’offerta supera la domanda e i prezzi sono quindi bassissimi. In questo slum vi sono all’incirca 300 prostitute che lavorano ventiquattr'ore al giorno.

Naturalmente la clientela è tutta costituita dagli stessi abitanti dello slum, da uomini che cercano anche loro di sopravvivere con lavori saltuari, alla giornata, che non potrebbero mai permettersi nemmeno una prostituta dei bar di Kabalagala. Vi starete chiedendo: ma perché queste donne non vanno a Kabalagala o altrove, nei locali alla moda, a prostituirsi, di modo che possano guadagnare di più? Perché hanno cominciato a prostituirsi ormai “vecchie” (qui già a ventisei anni una donna è considerata vecchia) dopo essere state abbandonate dal compagno o dal marito, oppure perché loro hanno già passato quegli anni, sono già state in quei locali e sono ormai passate, sciupate.

Negli anni in cui potevano ancora permetterselo, non sono riuscite a trovare quella persona che si innamorasse di loro e le sposasse togliendole così dal giro. Sera dopo sera, birra dopo birra, cliente dopo cliente, gli anni migliori per loro sono passati e ora devono lasciare il posto a ragazzine dai 18 (così dicono loro) ai 22-23 anni, abbigliate alla moda, che hanno qualche soldo per prendersi una o due birre, fare qualche partita a biliardo, nell’attesa che arrivi il cliente; ragazzine che a volte possono permettersi pure di andare in bianco. Chissà che per le nuove “leve” vada meglio. Altrimenti, tra un pò di anni, sarà la stessa storia, non più i pub e i bar di Kabalagala, ma le squallide stanze in legno di uno slum, dove svendere il proprio corpo a 3.000 scellini e dove non ci si può più permettere di andare in bianco.

La storia raccontata è spesso la stessa: la maggior parte di loro, verso i 15-16 anni, quando ancora vivevano in famiglia e andavano a scuola, sono state messe incinta da chi allora era il loro fidanzato e quindi sono state scacciate dalla famiglia e, naturalmente, abbandonate anche dal compagno. Non sapendo che fare, hanno cercato un alloggio a basso prezzo nello slum e per sopravvivere e crescere il loro figlio hanno così cominciato a prostituirsi.

Sono arrivata a Kampala a sedici anni, da Hoima (ovest Uganda), perché scacciata dalla famiglia quando hanno scoperto che ero incinta. Ora ne ho venticinque e oltre al primo figlio, che il padre non ha mai riconosciuto, ne ho poi avuto un altro da uno dei clienti, anche se non so chi, visto che ho una media di nove clienti al giorno. Chiedo 3.000 scellini con preservativo e 6.000 scellini senza”, così mi racconta S.B., grande tifosa dell’Inter, come dimostra la maglietta che indossa.

C’è da dire che trovare un lavoro a Kampala è difficilissimo, il tasso di disoccupazione è elevatissimo e anche chi trova un impiego, tipo cameriera, commessa o simili, alla fine del mese riesce a portare a casa circa 200.000 scellini (80 dollari), un nulla se considerato che solo l’affitto di una stanza costa 130.000-150.000 scellini al mese (52-60 dollari). Queste donne non sono neppure riuscite a trovare un lavoro simile e quindi hanno cominciato a prostituirsi, alcune da subito all’interno dello slum, altre dapprima (come già raccontato) nei bar e pub di Kabalagala o altrove e poi come ultima spiaggia nello slum.

Ho avuto i primi due figli da un “bianco”, quando frequentavo i locali alla moda. Poi lui mi ha abbandonato e mi sono ritrovata improvvisamente senza alcun aiuto economico. Ormai ho già 33 anni e ora i figli sono 8. Non chiedermi chi siano i padri”, mi racconta C.N.mentre allatta l’ultimo nato. 

All’interno dello slum hanno la loro stanza in cui vivono con i figli e poi affittano una cameretta (4.000-5.000 scellini al giorno, 1.6-2 dollari al giorno) in cui ricevono i clienti, stanzette fatiscenti che si trovano sul retro dei berettini dello slum o sul retro di altre misere case, fatte di assi di legno, una a fianco all’altra, con appena il posto per un letto singolo e una luce al neon o una lampadina (quando ci sono) che penzolano dalla trave di legno soprastante.

Quindi, al mese, tra affitto casa e affitto stanza, spendono sui 300.000 scellini (120 dollari), più i soldi per comprare il mangiare e prendersi cura dei figli alla meglio possibile. La cifra raddoppia quindi a 600.000 scellini (240 dollari). Ecco spiegato il motivo per il quale ogni giorno devono avere come minimo cinque o sei clienti, con cifre dai 3.000 scellini ai 10.000 scellini; ecco spiegato il motivo per il quale per 6.000 scellini arrivano a prostituirsi senza l’utilizzo del preservativo: la fame è fame, soddisfare i bisogni primari, quando non sono garantiti, ti porta a questo. Una situazione disperata.

Ho cominciato a prostituirmi due anni fa, quando mio marito mi ha abbandonato e dovevo in qualche modo prendermi cura dei miei due figli di sette e dieci anni. Ricevo una media di quattro o cinque clienti al giorno, per cifre che vanno dai 3.000 scellini ai 10.000 scellini”, mi dice C.Z.di ventinove anni, che non vuole mostrare il proprio volto in quanto ha da poco scoperto di essere sieropositiva.
Purtroppo, su dodici donne incontrate, cinque sono appunto sieropositive.

Ho cominciato a prostituirmi tre anni fa alla nascita del primo figlio e dopo essere stata abbandonata dal compagno. Ho una media di cinque clienti al giorno con cifre dai 5.000 ai 10.000 scellini. Sono sieropositiva e lo dico sempre ai miei clienti. Nonostante ciò, alcuni pretendono ugualmente di avere il rapporto senza preservativo, perché loro stessi sieropositivi o perché credono di non poter essere infettati in quanto circoncisi”, sussurra I.N.di ventotto anni, avvolta in una coperta.

Sono a Kampala, come prostituta, da due anni e ho un bimbo di 10 mesi avuto dal compagno che mi ha abbandonato e che ho scoperto avermi trasmesso l'HIV. Il bambino però sta bene. Ricevo tre o quattro clienti al giorno per cifre dai 7.000 scellini ai 10.000 scellini. Nonostante sia sieropositiva e lo dico sempre ai clienti, alcuni di loro non se ne curano per niente e vogliono farlo senza preservativo”, S.H., di Arua (nord Uganda), diciotto anni, la più giovane del gruppo.

L’unica speranza, l’unica luce per queste donne e, soprattutto, per i loro figli è quindi rappresentata da Mark e la sua organizzazione, fondata nel 1993. Attualmente la NCO (supportata dalla Ong italiana “Insieme si può per L’Africa” di Belluno, rappresentata qui in Uganda da Davide Franzi) fornisce un’educazione informale a circa 300 bambini e garantisce l’accesso al sistema scolastico per altri 120, pagandone la retta e comprando i materiali necessari.

Per quanto riguarda le attività ricreative sono state create due squadre di calcio (la Kabalagala Rangers FC e la Belluno Kabalagala FC) che partecipano a due differenti campionati locali ed è stata creata un’accademia per la danza e la musica, la SOSOLYA UNDUGU DANCE ACADEMY, che partecipa a diversi festival musicali nell’Africa dell’est e l’anno prossimo sarà impegnata addirittura in un tour tra Germania e Austria.

Damiano Rossi.

Mi unisco a Damiano in una mia rara occasione di promozione di opere umanitarie.

In questo universo virulento che genera solo miseria per sopravvivere, come in ogni realtà, esistono eccezioni. In questo caso: la associazione ugandese Needy Children Organisation e la Onlus Italiana Insieme si può Africa, di cui pragmatismo e risultati concreti ho già avuto modo di raccontare in precedenti miei articoli.

Con cuore sincero testimonio che ne vale la pena aderire all’appello di Damiano in aiuto non di queste due associazioni ma delle ragazze Mbaraka e dei loro bambini, concordando con la frase: “Insieme possiamo fare la differenza”. Mbaraka è il termine Swahili per definire le prostitute dell’ultimo girone dell’inferno dantesco di cui quelle che vivono nel cono d’ombra di Kabalagala ne rientrano, purtroppo, a pieno titolo.

Puoi fare la tua donazione a “Insieme si può…” con bollettino postale o bonifico bancario alle seguenti coordinate: ASSOCIAZIONE GRUPPI “INSIEME SI PUÒ…” ONLUS-Ong Conto corrente postale: 13737325 – IBAN: IT 5 L 07601 11900 000013737325 Banca Etica: IT 66 F 05018 12000 00000 0512110 Causale: progetto NCO-erogazione liberale

Davide Franzi (direttore della sede Insieme Si Può Africa) e Damiano Rossi, garantiscono che i fondi saranno gestiti al meglio prendendo l’impegno di tenere seriamente aggiornati i finanziatori che, oltre ad inviare i contributi, invieranno anche un messaggio privato su Facebook: https://www.facebook.com/damiano.rossi.3726 a Damiano o un email a Davide: Franzidvd@yahoo.it Conoscendo Damiano la promessa sarà certamente mantenuta.

Il reportage completo si può visionare sul sito artistico di Damiano Rossi: http://damianorossiphoto.it o ridettamene al link: http://www.damianorossiphoto.it/index.php/reportages/luci-e-ombre-a-kabalagala-vite-dietro-un-sipario

Mercoledì 29 ottobre 2014